di Alberto Burgio*
L’editoriale di Ernesto Galli della Loggia, apparso sul Corriere della Sera di lunedì sotto un titolo barricadiero (“Il potere grigio degli oligarchi”), è molto interessante. Chi, depistato dalle prime righe, avesse rinunciato a leggerlo per risparmiarsi l’ennesima giaculatoria pro-Gelmini, si sarebbe perso uno di quegli esercizi di (il)logica propagandistica nei quali gli opinionisti della “grande stampa” eccellono.
Le premesse sono queste: siamo in un Paese “sempre più dominato dai vecchi”. Vero. “Il potere italiano è un potere vecchio e di vecchi”. Vero. Vero anche che i vertici delle istituzioni pubbliche e private (università, banche, partiti e consigli di amministrazione) sono appannaggio di caste e resi inaccessibili agli outsider da dispositivi formali e informali che proteggono chi è già interno all’élite o gode di “appoggi potentissimi”. La nomenklatura, insomma, si riproduce per partenogenesi. Ma, detto tutto questo (a ragione), con chi se la prende Galli? Con i “tre pilastri della burocrazia statale”: il principio della carriera, il legalismo dei Tar e, soprattutto, l’ostilità (“generale” e nientemeno che “feroce”) al merito.
Qui casca l’asino. Siccome il ragionamento si ferma all’accorata denuncia del (presunto) nesso tra gerontocrazia e mancata valorizzazione dei meriti, sembra di capire che secondo Galli la selezione meritocratica della classe dirigente provocherebbe un ricambio generazionale: quel passaggio del testimone dai vecchi ai giovani che i primi, comprensibilmente, ostacolano. Ma questo è vero solo se la selezione è limitata in partenza all’élite, se riguarda soltanto chi è già (per diritto di nascita) “destinato” ad affermarsi. È vero cioè se si tratta della trasmissione ereditaria dei privilegi, antitesi della meritocrazia.
Al contrario, una vera selezione meritocratica non è detto che determinerebbe un ricambio generazionale (ci sono molti “vecchi” più bravi di tanti giovani), mentre è certo che causerebbe un terremoto sociale. Diceva quel facinoroso di Rousseau che solo i servi possono pensare che chi comanda o possiede grandi ricchezze sia per ciò stesso migliore di chi è costretto a obbedire o è povero. Non serve grande fantasia per intuire che una società in cui i genitori tramandano ai figli patrimoni e posizioni sociali (o ben avviate e lucrose professioni) uscirebbe trasfigurata da un bagno di vera meritocrazia. La quale imporrebbe di mettere davvero ciascuno in condizione di istruirsi e di dar prova delle proprie capacità. E con ogni probabilità riserverebbe a molti ottimati l’amarezza di assistere ai fallimenti della propria prole.
C’È DA CHIEDERSI allora perché il discorso sul merito stia tanto a cuore a chi non è noto per aspirazioni rivoluzionarie. La risposta è semplice: la meritocrazia di cui si ama parlare è un bidone o – scegliete voi – una sfrontata provocazione. È una scatola infiocchettata dentro la quale non c’è solo la pretesa di conservare i vantaggi di cui si gode “per grazia ricevuta”, ma anche quella di esserseli meritati. Del resto è una lunga storia, vecchia di due o tre secoli. Abbattute le caste nobiliari, la borghesia si trovò ben presto a dover giustificare l’emarginazione imposta al quarto stato. Allora i talenti vantati per spodestare l’aristocrazia furono invocati anche per legittimare la subordinazione delle classi lavoratrici. Peccato che i frutti avvelenati di questa geniale trovata furono il razzismo e il darwinismo sociale.
*professore di Storia della Filosofia all’Università di Bologna
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