di ANDREA MANZELLA
Con l'approvazione della legge per la stabilità finanziaria, la crisi può essere "spacchettata". L'aveva "impacchettata" il Presidente della Repubblica. Mai come questa volta, rappresentante dell'unità nazionale, come dice l'articolo 87 della Costituzione. E responsabile di questa "unità" non solo e non tanto verso il nostro interno: ma soprattutto di fronte al nucleo più profondo e decisivo dell'Unione Europea: la zona dell'euro.
Prima i conti pubblici, poi il regolamento dei conti tra partiti. Una moratoria decisa dal Capo dello Stato "in supplenza di forze politiche non in grado di capire da sole la gerarchia temporale delle scelte" (B. Caravita). Ma poteva farlo? Una crisi "congelata" non si era mai vista nella nostra esperienza repubblicana.
Non si era mai vista però neppure una crisi finanziaria così profonda e proteica intorno e dentro la moneta europea. Con una discussione apertissima su quanto di nazionale, su quanto di comunitario ci deve essere nelle dighe che affannosamente si apprestano. E quindi con una messa a nudo di ciascuno Stato membro delle sue "verità" economiche, finanziarie, sociali. Nelle sue possibilità reali di uscire - da solo o aiutato - dal pantano.
Il Presidente della Repubblica ha interpretato lo stato delle cose. E ha cominciato a "gestire" la crisi politica, prima ancora che formalmente si aprisse, nel solo modo possibile: bloccandola.
Ma anche i non-eventi producono effetti nella vita costituzionale. E questa "sospensione" ha significato due cose. Che pesano. La prima è il riconoscimento fra i principi supremi e inderogabili della nostra identità repubblicana dell'articolo 11 della Costituzione (quello che consente la limitazione della sovranità nazionale in vista soprattutto della prospettiva europea, come si disse il 24 marzo 1947 nell'Assemblea Costituente che lo approvò). Il Capo dello Stato ha fondato la sua azione su questo principio di "collaborazione per lo sviluppo dell'integrazione europea", come dicono i tedeschi. Guardando ai gravi rischi per la casa comune, al di sopra di ogni considerazione di politica interna.
Il secondo effetto è che questa perentoria influenza per uno "scoppio ritardato" della crisi senza alcun riguardo per le variegate convenienze dei partiti ha tolto ogni dubbio su dove risiedano gli esclusivi poteri per la sua risoluzione, dopo che il Parlamento si sarà pronunciato. Nella Repubblica "maggioritaria" del bipolarismo "duro e puro", la necessità di un punto neutro, ma costituzionalmente forte, per la composizione di ultima istanza del conflitto politico si è imposta infatti addirittura con il ricorso a un inedito armistizio. Questi dati saranno determinanti nel corso prossimo degli eventi.
Innanzitutto, la supremazia dell'interesse comune europeo sulle vicende nazionali, così come fatta valere dal Quirinale, significa che le nostre scelte di finanza pubblica, con qualsiasi governo, oggi o domani, non potranno mai discostarsi dalle linee forza sull'euro, codisegnate dall'Unione e dalla Banca centrale europea. Non un nuovo governo, ma una campagna elettorale produrrebbe un buco in cui ogni incertezza e ogni speculazione si infiltrerebbero.
Il rafforzamento, poi, dei poteri del Capo dello Stato come "arbitro della crisi" ha confermato la natura profondamente parlamentare del nostro sistema. Composto da Parlamento e governo: non come pezzi di un meccanismo unico ma come istituzioni autonome che devono convivere e cooperare in un equilibrio su cui vigila appunto il Presidente della Repubblica.
Non esiste una sovranità assemblearistica del Parlamento sul governo. Camere che non riuscissero ad esprimere un governo capace di governare, dovrebbero essere immediatamente sciolte, mandate a casa. Ma non esiste neppure una sovranità del governo sul Parlamento. Il fatto che siano "eletti" nello stesso giorno non significa niente, quando il giorno non è più lo stesso.
Cinque anni, la durata di una legislatura, sono una moderna eternità. Il nostro tempo non risparmia mutevoli crisi oggettive e logoramenti soggettivi. Certo, vi possono essere uomini e governi per tutte le stagioni. Ma il Parlamento serve appunto a giudicare di questo. La stabilità è un bene quando è congiunta all'efficacia dell'opera e all'autorevolezza delle persone. Quando diviene solo uno stabile mascherone, deforma il volto stesso della nazione. Allora la flessibilità parlamentare deve intervenire per produrre il cambiamento di programmi o di guida politica, nell'interesse pubblico. Senza traumi di diritto né elettorali: perché questa, appunto, è la democrazia parlamentare.
La crisi prossima ventura non dovrebbe deragliare dai binari così segnati. La sua rapidità, nell'urgenza dei tempi, dovrebbe essere inversamente proporzionale all'attesa obbligata.
C'è però una caratteristica di questa crisi che la rende ancora "più parlamentare": se è possibile dire così. L'attuale, lo sappiamo, è un Parlamento di "nominati". Contro questa bruttura democratica e contro l'artificioso altissimo "premio" che altera il risultato elettorale, vi è una vera e propria rivolta di opinione. L'attuale governo è sordo ad ogni cambiamento. Non a caso su questo rifiuto può fondarsi la legittimazione di un nuovo cartello governativo di forze assai diverse che abbiano però come programma comune quello, garantista, di riportare a verità le elezioni nel nostro Paese.
Ciò detto, è però assai importante per l'Italia che nella sostanziale scomparsa dei partiti, come centri di aggregazione e di progettazione per la cosa pubblica, si sia prodotto nelle Camere un moto politico fondato sulla ripresa dell'indipendenza parlamentare, nei termini di libertà dell'articolo 67 della Costituzione. A conferma che in ogni parlamento comunque, c'è sempre, da qualche parte, una Sala della Pallacorda in cui prende corpo e anima la ribellione per un corso diverso delle cose.
Le accuse di tradimento, di ribaltone, di trasformismo lasciano davvero il tempo che trovano (o meglio ritrovano un loro tempo nel tenebroso passato dei partiti-chiesa). È nuova, invece, questa felice scoperta di un parlamentarismo che, malgrado tutto, "eppur si muove". Si collega a quella riedizione del parlamentarismo europeo che in Germania e Regno Unito "crea" governi di coalizione, dopo il conflitto elettorale; che in Francia impone un premier "assembleare" al presidente direttamente eletto; che lega sempre più a sistema Parlamento europeo e parlamenti nazionali.
Certo, quelle società politiche non ignorano i sondaggi e le loro seduzioni a corto raggio. Ma nella durezza della crisi, credono di più nel sondaggio permanente dei loro parlamenti, nel plebiscito parlamentare di ogni giorno. E nel filtro di tutti i sondaggi che è nella pancia delle Camere rappresentative.
È anche alla luce di questi esempi europei che si può ora "spacchettare" serenamente il "pacchetto" della crisi italiana nei tempi segnati dall'orologio del Quirinale.
(07 dicembre 2010)
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