MARIO DEAGLIO
Quella che oggi si apre dovrebbe essere la settimana cruciale della politica, ma potrebbe anche risultare la settimana cruciale dell’euro. In Italia si valuterà la capacità di tenuta del presidente del Consiglio, ma sui mercati finanziari si valuterà la tenuta della moneta europea, prima scesa, poi rimbalzata, poi nuovamente debole dopo la faticosa messa a punto di una politica in favore dei Paesi maggiormente a rischio della zona euro.
Ebbene, diciamolo francamente: alla maggioranza degli italiani, e forse degli europei, l’euro non è simpatico e se ne parla male qualunque cosa succeda. Se il cambio si rafforza, ecco le critiche perché i prodotti esportati fuori della zona diventano automaticamente più cari, le vendite diminuiscono e la crescita rallenta; se il cambio si indebolisce, e quindi si pagano più cari gli acquisti extraeuropei, sono immediati i timori che il rialzo dei prezzi dei beni importati inneschi l’inflazione. E chi fa sommessamente presente che l’euro ci ha dato dieci anni senza inflazione si sente rispondere che gli indici dei prezzi sono sbagliati e che gli aumenti «veri» sono molto superiori. Se mai l’euro dovesse scomparire - un’ipotesi del tutto irrealistica - ci sarebbero moltissime preoccupazioni ma poche lacrime.
E questo perché, essendo frutto di un compromesso, nessuno Paese percepisce veramente l’euro come la propria moneta. I tedeschi rimpiangono il loro amatissimo marco, alla cui ombra potente pagavano volentieri più della loro quota del costo complessivo dell’Unione Europea; gli altri europei, e i francesi in particolare, borbottano sottovoce che l’abbandono del marco ha rappresentato la contropartita del «sì» europeo all’unificazione tedesca e che era inteso che i tedeschi avrebbero continuato a finanziare l’Europa senza proteste; agli italiani, poi, in fondo non dispiaceva la sagra degli zeri, preferivano sentirsi milionari nelle vecchie lire che vivere con mille euro al mese anche se con minore inflazione. Per tutti l’euro evoca più doveri che piaceri, un mondo grigio e ordinato in cui i conti devono tornare.
Il nocciolo duro della questione è tutto qui. In questi giorni è stato autorevolmente detto da più parti, con allarmismo ingiustificato, che, se l’euro dovesse finir male, l’Europa smetterebbe di esistere. E’ necessario ribaltare la questione: perché l’euro vada davvero bene, bisogna dare un senso all’Europa. L’euro ha rappresentato un’operazione inedita nella storia, e precisamente il tentativo di avviare un’identità comune non già attraverso l’eredità culturale del passato, la religione, la lingua ma, appunto, attraverso la moneta. Va detto che l’euro ha fatto bene la sua parte e dal punto di vista tecnico non lascia certo a desiderare. Ora però la sua spinta iniziale si è esaurita e non può trainare indefinitamente un continente svogliato: una moneta europea richiede una gestione europea, e non più nazionale, dell’economia. Questo implica sia l’esistenza di un ministro europeo dell’Economia, non previsto né dal fallito progetto di costituzione né dal trattato di Lisbona, sia almeno un embrione di tassazione europea. Nessun governo li accetta volentieri perché perderebbe la parte di sovranità che maggiormente sta a cuore ai politici: la facoltà di decidere come tassare e come spendere, a chi far pagare e chi beneficare.
Questo vuoto non può durare a lungo, siamo su un piano inclinato e se non andiamo avanti scivoleremo all’indietro. Andare avanti significa appunto trasferire una parte, inizialmente piccola, delle entrate fiscali a un governo centrale europeo che sia qualcosa di più dell’attuale Commissione. Con queste entrate il governo centrale europeo dovrà provvedere a spese a carattere generale, sottraendole ai governi nazionali. La scelta è ampia: dal controllo dell’immigrazione alla ricerca scientifica, dalla protezione civile alla sanità di base, ad alcuni segmenti della difesa. L'importante è che si cominci; invece tutti sono distratti da questioni nazionali e gli italiani avranno questa settimana la mega-distrazione del voto di fiducia mentre i problemi si accumulano per chi si troverà al timone dopo il voto di fiducia.
Solo in quest’ottica generale ha un vero significato, al di là dell’utilità come espediente congiunturale, la proposta Juncker-Tremonti sull’emissione degli E-bonds, ossia di titoli sovrani di debito non solo da parte di singoli Stati ma anche da parte dell’Unione Europea. I nuovi titoli non dovrebbero servire soltanto a scopi di stabilizzazione finanziaria ma anche al finanziamento di progetti europei, a cominciare dal campo delle infrastrutture. Si dovrebbe procedere, così come è successo nella storia degli Stati Uniti, alla determinazione di diversi livelli di finanza pubblica, uno europeo, uno nazionale e forse anche uno regionale. Il federalismo miope in cui ciascun Paese fa da sé, come se l’Europa e il mondo non esistessero è comunque destinato al fallimento. Quale che sia l’esito del voto di fiducia.
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