GIORGIO MELETTI
A Mirafiori finisce la speranza di stare meglio dei padri. E di liberare il corpo degli operai dalla fatica e dall'usura
Il referendum di Mirafiori, quale che sia il risultato, fisserà nella coscienza collettiva un fatto storico: dopo due secoli di ininterrotto miglioramento e di aspettative fiduciose, gli occidentali di passaporto italiano sperimentano un peggioramento strutturale delle condizioni di vita e di lavoro. Non tutti, non tutti insieme. E i lavoratori della Fiat non sono i primi. Eppure il dramma sociale che si consuma in queste ore nel luogo simbolo del boom economico rende gli operai di Mirafiori simbolo a loro volta: come i loro padri rappresentarono sotto quei capannoni la conquista di un benessere inimmaginabile per la generazione precedente, le tute blu del referendum 2011 incarnano il declino. Quando si dice che l’accordo imposto da Marchionne peggiora le condizioni la replica è in genere che altre intese anche peggiori sono state già firmate per altri settori e altre imprese. Ciò che conferma l’assunto.
22 anni alla catena
“È l’ultima possibilità per salvare l’industria dell’auto in Italia”, scandisce Tom Dealessandri, oggi vicesindaco di Torino, ma per tutta la vita punto di riferimento della Fim-Cisl dentro
Prendiamo un caso concreto. Nina Leone, 47 anni, da
Parlare con donne come Nina obbliga a riflettere. A trent’anni dall’illusione tecnologica che faceva sognare fabbriche popolate da robot, cioè la liberazione dal lavoro manuale, siamo costretti a scoprire che al centro della competizione industriale c’è, più che mai, il corpo degli operai. Si studia la sua resistenza non alla fatica ma alla ripetizione ossessiva dello stesso movimento 60 volte all’ora, per sette ore, tutti i giorni, per anni. Nina spiega che cos’è l’Ocra: “È uno standard europeo per la misurazione del rischio biologico per gli arti superiori”. Si studia il sistema per poter costruire auto per tutta la vita senza che ti si stacchino le braccia.
Comanda la catena, non l’uomo
Sergio Marchionne non è il dottor Mengele. Però l’idea della fine del lavoro si è rivelata una previsione quantomeno esagerata. Agli operai che a inizio carriera aspettavano il giorno in cui avrebbero incrociato le braccia per osservare il lavoro del robot si chiede oggi, alla vigilia della pensione, di lavorare più che mai per reggere la concorrenza imposta dalla globalizzazione. È vero, le nuove linee di montaggio sono più ergonomiche, come si dice in gergo, favoriscono movimenti più razionali, più produttivi e meno faticosi e usuranti. Però il lavoro notturno generalizzato non era previsto dal patto sociale di trent’anni fa.
Le verità drammatica è questa: prima la catena di montaggio spostava gli oggetti e li posizionava a portata di braccia umane, che producevano quanto potevano; adesso gli uomini sono ridotti a un quarto e integrano il lavoro manifatturiero dei robot. Ciò significa che se prima i ritmi erano, per semplificare, la sintesi tra l’avidità aziendale e l’autodifesa operaia, adesso hanno un riferimento esterno, la velocità non trascurabile delle linee robotizzate. La pressione sul corpo degli operai è inevitabile.
Torniamo nell’ufficio di Dealessandri, il vecchio sindacalista che oggi guarda con angoscia al futuro della città. “Senta, le condizioni di lavoro degli operai in Fiat hanno smesso di migliorare nel 1980. Sì, trent’anni fa, marcia dei 40 mila e storica sconfitta del sindacato. Da allora Torino ha perso 250 mila posti di lavoro nell’industria. E da allora si è persa la prospettiva del futuro. Se oggi lei parla con gli operai scopre che si parte obbligatoriamente da quanto manca alla pensione, alla scialuppa di salvataggio. E sono attaccati a quel posto, vivono di quello e vogliono conservarlo: questo per loro viene prima della discussione sull’organizzazione del lavoro”. Possibile? Possibilissimo, dice Dealessandri, con tono deciso e rassegnato al tempo stesso: “La vita dell’operaia che è stata dieci anni con le braccia alzate non è la peggiore, qui a Torino. Quegli operai almeno non sono stati espulsi, non hanno perso la cittadinanza produttiva. I laureati che fanno lavoretti saltuari a 4-5 euro l’ora stanno peggio. Gli operai specializzati di 45 anni che non trovano più un lavoro e sono sostenuti dalla pensione del padre ottantenne stanno peggio. E se muore il padre? Io ho perso mio padre a 19 anni, ma avevo già un posto di operaio alla Fiat, mi alzavo alle quattro e mezza di mattina ma mi sono fatto una famiglia e anche la 500. Avere 20 anni alla fine dei ’60 era così. Oggi possiamo solo cercare di ricostruire qualcosa intorno a quello che resta della Fiat”.
Un giorno qualcuno dirà se in queste ore a Mirafiori si sta scrivendo una pagina storica della modernizzazione o semplicemente la classe dirigente italiana prende atto della sconfitta. Scaricando sugli operai il compito di firmare la resa.
Nessun commento:
Posta un commento