Per il premier è una settimana decisiva. Tra indagini, condanne e tensioni interne, il governo va alla prova del federalismo fiscale. B. ostenta sicurezza - "Io vado avanti" - ma potrebbe essere
Una crepa, poi un’altra e un’altra ancora: il mondo attorno a Silvio Berlusconi rischia di sfaldarsi, ma l’unico a non accorgersene sembra essere proprio lui. Mentre il presidente del Consiglio interveniva telefonicamente ad un convegno del Pdl a Milano per denunciare l’ennesima persecuzione giudiziaria,
Proprio quest’ultimo, di tutti gli affanni, è quello che sembra dare più guai nell’immediato al cavaliere. Perché una Lega sempre meno disposta a tollerare gli scandali e le inchieste potrebbe decidere di staccare la spina al governo se non dovesse ottenere il sì ai decreti attuativi del federalismo entro la fine della settimana prossima. Bossi lo ripete un giorno sì e l’altro anche: “Senza federalismo si va al voto”. Ma un Berlusconi senza governo sarebbe un cavaliere senza destriero, esposto in un solo colpo al giudizio della magistratura e a quello degli elettori. In realtà la partita è ancora tutta aperta. Dopo le prese di posizione di Anci, Terzo Polo e opposizione, l’esecutivo è stato di fatto costretto a dare una settimana di tempo in più alla Commissione bicamerale per esprimere il parere sul decreto che riguarda le tasse dei comuni. Già lunedì il presidente dell’Anci Sergio Chiamparino, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e quello della Semplificazione Roberto Calderoli, si incontreranno per sciogliere i nodi del testo definitivo del decreto.
Il premier, però, continua a fare buon viso a cattivo gioco. Per l’ennesima volta questa mattina, intervenendo telefonicamente ad un convegno milanese del Pdl: “Io non ci sto, non fuggo e non mi dimetto. Pensavano di piegarci – ha aggiunto – ma noi non ci pieghiamo e reagiamo all’aggressione”. Segue, come da copione, l’attacco ai pm milanesi. “È normale in una normale democrazia che il presidente del consiglio sia sottoposto a uno spionaggio del genere?”. E la condanna delle intercettazioni: “Non sono state fatte a seguito di una notizia di reato ma per costruire una notizia di reato”. Il nodo della riforma della giustizia diventa poi un’occasione per strappare un applauso di approvazione nella lotta fratricida con l’ex alleato Fini: “Siamo determinati a realizzare la riforma che non siamo mai riusciti a fare non per mancanza di impegno ma per l’opposizione prima di Casini e poi di Fini. Una riforma che è richiesta da ciò che sta avvenendo da anni in Italia”. Per Berlusconi, il leader di Futuro e Libertà ha messo in atto un “disegno eversivo” contro il governo: “Dal 2008 al 2010 – ha detto Berlusconi – Fini ha bocciato tutti i tentativi di riforma della giustizia, a partire guarda caso dalla legge sulle intercettazioni. Poi è stata messa in atto la scissione di Futuro e Libertà per mettere in minoranza il Governo, ma il disegno eversivo è fallito, e allora subito è scattata la via giudiziaria”.
Insomma, le difficoltà del premier sarebbero frutto di un complotto, vero o presunto. Ma Berlusconi sa bene che una parte dei suoi elettori rischia di abbandonarlo ugualmente. A cominciare dal suo stesso partito, che in Lombardia comincia a guardare con insofferenza a personaggi come Nicole Minetti. Così i vertici del partito si sono messi di traverso contro i giovani, capeggiati nello “sciopero della militanza” dalla giovane Sara Giudice. Peggio ancora va tra gli elettori: il presidente del Consiglio si affanna a ripetere di poter contare su un gradimento altissimo (“sono al 52,4%”, diceva pochi giorni fa), ma i sondaggi, ultimo quello di Luigi Crespi, vedono la sua figura annebbiarsi di fronte all’elettorato più vicino alla Chiesa – che ora non a caso guarda con rinnovato interessate a Casini – e proclamano un meno 3%.
Il cavaliere è riuscito persino nell’inatteso compito di ricompattare le anime del Pd, da qualche giorno a questa parte unite nel chiederne le dimissioni immediate. Dopo settimane di tentennamenti e mesi di prove tecniche di successione, da Bersani a Veltroni, da D’Alema a Franceschini, tutti i big democratici pronunciano una sola parola: dimissioni.
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