BRUNO TINTI
L’assistenza ai programmi informatici della giustizia è stata bloccata: non ci sono soldi per pagare le aziende che la fanno. Da miei personali sondaggi (eh sì, anche io li faccio) 7 persone su 10 non sanno nemmeno cosa questo significhi, 1 è moderatamente preoccupata (ma sì, in qualche modo si aggiusteranno, intende dire i magistrati) e 2 sono preoccupatissime. Diciamo che la cosa non è percepita come un gran problema. Cerco di spiegare.
Vi capita mai di vedervi scomparire il documento su cui lavorate e apparire la famosa scritta “si è verificato un errore sconosciuto, cliccate per inviare report a Microsoft”? Ecco, nei programmi utilizzati dall’Amministrazione della Giustizia questo capita molto molto spesso. Sono programmi complessi e poi sono stati realizzati con investimenti certamente cospicui (sempre di qualche milione di euro si tratta) ma non certo paragonabili a quelli di Bill Gates. Quello che è più grave è che non si può fare come con “Word”, un paio di imprecazioni, apri un nuovo documento e ricominci da capo. Qui prima di tutto succede che il programma si blocca e non puoi continuare a lavorare; e poi che anche i dati inseriti nei giorni passati non sono più disponibili.
Computer in panne nella modernità
Insomma, se non arriva il tecnico che smanetta sul programma e lo fa ripartire, tutti restano fermi. Dico tutti, perché il programma che si blocca è quello cui accedono tutti i magistrati e i cancellieri dell’ufficio; che dunque, fino allo sblocco, o fanno qualcosa d’altro o se ne vanno a casa. In genere e fino ad ora, siccome lo sblocco era questione di ore, qualcosa d’altro da fare lo trovavano, ovviamente. A questo punto, però, niente soldi, niente assistenza, blocco dei programmi, se non oggi, domani; certo come la morte.
Ma è grave? Non si può fare a meno di questi programmi per fare i processi? Certo che si può; anzi, per la verità, i processi si fanno (purtroppo, ma questa è un’altra storia) con i buoni vecchi sistemi: carta, penna e calamaio. Solo che poi nessuno saprebbe come sono finiti. Naturalmente l’imputato, gli avvocati, i giudici, insomma le parti del processo, loro lo sanno. Ma i giudici dell’appello no e quelli della cassazione nemmeno; non si può più controllare se i termini per fare un appello o un ricorso sono scaduti o no e quindi nessuna sentenza può essere esecutiva, che vuol dire che non si può fare quello che il giudice ha deciso: pagare il debito, andare in prigione, uscire di prigione. Non si può sapere se le indagini del pm sono scadute e quindi non si può più indagare, se si può continuare a intercettare o no; non si può sapere dove bisogna notificare le sentenze e gli altri atti alle parti del processo perché non si sa dove abitano o dove hanno eletto domicilio; non si può sapere se l’imputato è recidivo e se gli tocca quindi una pena più elevata. Non si può nemmeno sapere da quanto tempo una persona è in carcere e se è arrivato il momento di farla uscire, per decorrenza termini o fine pena. Non si può sapere più niente: un mare di carta sulla quale nessuno sa cosa c’è scritto. Bene, basta andare a leggere. Vero. Ma qui si parla di milioni di fascicoli (che aumentano ogni anno). Nessuno può andare a leggerseli tutti; e non una ma 10, 100, 1000, ogni volta che c’è la necessità di fare qualcosa su ogni singolo fascicolo. Qualche processo importante verrà concluso ma poi non si riuscirà a fare l’appello o la cassazione, qualche sentenza sarà notificata ma poi non si potrà eseguire. Fine di tutto; amministrazione della giustizia paralizzata.
Va detto che tutto questo è successo perché non ci sono soldi; insomma, non è un complotto di B&C. Alfano e Brunetta i soldi (circa 50 milioni di euro per un anno, attenzione, un anno poi si ricomincia) li hanno chiesti. Ma Tremonti ha detto di no. E ovviamente non è che ha detto di no per dispetto: è che proprio non li ha. La stessa situazione c’è per tutte le altre amministrazioni, per dire anche al Ministero dell’Interno; non è così grave perché nessuno ha programmi tanto sofisticati come
La soluzione del ministero
Adesso però il ministero ha detto che il problema è stato risolto e che, dal 7 gennaio, tutto funzionerà come prima. Quello che non ha spiegato è che Tremonti ha continuato a dire che soldi non ce n’è e che quindi alla Giustizia non arriverà niente. E allora i soldi da dove vengono? Ecco, questo è il punto: sempre dalle risorse della Giustizia. Ha grattato di qui, limato di là e ha messo insieme quanto basta per pagare le aziende fino a giugno. Poi saremo al punto di prima; ma certo non è colpa sua: che altro si potrebbe fare?
Veramente non lo so proprio: economie e tagli, questo certo, cominciando dai soldi spesi per la politica. Stipendi ai politici da ridurre, non in odio a loro ma perché obiettivamente molto elevati; e da ridurre o abolire anche i cosiddetti rimborsi elettorali (forma occulta di finanziamento pubblico ai partiti, abrogato con referendum). E i finanziamenti previsti dalla legge sull’editoria, da abolire anche questi: se Il Fatto vive e prospera con i suoi soldi e con il suo lavoro, non si capisce perché gli altri giornali non possano farlo.
E gli sprechi sanitari, etc etc. Ma non so se tutto questo sarebbe sufficiente; per pagare l’assistenza informatica alla Giustizia probabilmente si; ma per risanare il sistema-paese?
Ecco, forse non subito; ma un circolo virtuoso potrebbe avviarsi. Hai visto mai che si sta toccando il fondo? Da dove, come ognuno sa, non si può che risalire.
Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2010
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