mercoledì 12 gennaio 2011

Ottimisti e ingenui


Tempo fa scrivevo così: «A parità di tecnologia l'Occidente ad alto costo di lavoro è destinato a restare senza lavoro: le cosiddette società industriali avanzate diventerebbero società senza industria... In un'economia globalizzata il lavoro va ai poveri e i Paesi ricchi vanno in disoccupazione». Quanto tempo fa? Esattamente nel 1993, diciotto anni fa prolusione dell'anno accademico dell'Accademia dei Georgofili. S'intende che questo era uno schema astratto, in vitro, che non metteva in conto le vischiosità del mondo reale. Ma la previsione era, direi, centrata.

Sempre diciotto anni fa accennavo anche ai rimedi, ai correttivi. Così: «Il localismo è miope e inaccettabile, ma il globalismo dovrà essere riformulato realisticamente come un processo multistep da perseguire con passi commisurati alle gambe. Al globalismo vero e proprio non arriveremo probabilmente mai salvo che nei mercati finanziari ma è possibile e auspicabile puntare a più ampi mercati relativamente omogenei. Tra il policentrismo di milioni di villaggi e l'acentrismo della retorica globalistica dobbiamo cioè puntare su un mondo oligocentrico strutturato per aree di mercato a tenore di vita pareggiabile. Non dobbiamo essere localisti ma nemmeno globalisti ingenui che perseguono un programma di miseria generalizzata secondo il detto «meglio egualmente poveri che inegualmente ricchi».

Invece l'Economist è contento. Cito da Paolo Legrenzi Corriere, 18 dicembre 2010 che trova singolare che in Occidente prevalga il pessimismo visto che oggi la corsa dei Paesi emergenti fa sì che moltissimi abbiano ragionevoli speranze di stare meglio nel futuro. E questa dovrebbe essere una ragione in più, per l'Economist, per tornare ad essere ottimisti.
Evviva. E mi auguro che i bontemponi «felicifici» del settimanale inglese diano il buon esempio riducendo il proprio stipendio di tre-quattro volte.
Stupidaggini a parte, la realtà è che siamo davvero arrivati al capolinea. La nostra disoccupazione è strutturale, non congiunturale; visto che è dovuta alla «delocazione» del lavoro; e la jobless recovery, una ripresa senza occupazione, deve stupire solo economisti rimasti indietro di decenni. In un mondo globalizzato il lavoro va dove costa meno. Pena il fallimento. Il caso della Fiat è emblematico. Piaccia o non piaccia alla Cgil e in particolare alla Fiom, Marchionne ha ragione, ed è lui che tiene il coltello dalla parte del manico. Fiat sta per «Fabbrica Italiana Automobili Torino». Spero che anche Marchionne senta questo antico vincolo, e cioè che senza Torino, senza Mirafiori, la Fiat non è più Fiat.

Però Marchionne è un manager che va dove deve, e fa quel che fa, per salvare la sua azienda. Mentre la Fiom è un sindacato reazionario si può dire? che difende l'indifendibile, e cioè, come scrive Massimo Gaggi Corriere, 2 gennaio, «
conquiste inesorabilmente erose dalla realtà». Come ha detto ragionevolmente Fassino, se io fossi un operaio della Fiat voterei la proposta Marchionne. Nel mondo il mercato delle automobili è saturo. Nei prossimi anni molti «piccoli» dovranno morire, e solo alcuni giganti sopravvivranno. Ci vuole molta malafede, oppure troppa fede ideologica, per non rendersene conto.

Giovanni Sartori
08 gennaio 2011

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