venerdì 11 febbraio 2011

La beffa finale del faraone di plastica


di BERNARDO VALLI

È stata una tragi-commedia. Il giorno della truffa? O la vigilia di una guerra civile? I giovani di piazza Tahrir, espressione della generazione del web, pensavano di avere infine scalzato dal potere dopo diciassette giorni il vecchio generale al potere da trent'anni.

L'eco della loro gioia rimbalzava sulle sponde del Nilo, invase da una folla in delirio, e raggiungeva nelle stesse ore il mondo arabo, elettrizzato dalla notizia, rivelatasi falsa, delle sue dimissioni. Nella più grande e prestigiosa nazione araba, con ottanta, forse cento milioni di abitanti, una rivolta democratica era riuscita a cacciare il raìs che sembrava intramontabile. Quel che era accaduto nella piccola Tunisia si stava ripetendo in Egitto dove sembrava impossibile.

E invece
Hosni Mubarak si è presentato alla televisione, nella tarda serata, quando tutti si aspettavano le sue dimissioni, e ha detto con un lungo discorso che lui resta alla presidenza. Non se ne va. Non ne ha nessuna intenzione. Se ne andrà soltanto in settembre e non subito come vuole la folla. Delegherà parte dei poteri al fedele Omar Suleiman, il vice presidente. Il quale è intervenuto poco dopo per invitare quelli di piazza Tahrir ad andare a casa, e a non ascoltare le notizie provenienti dall'estero.

Mubarak aveva la faccia di sempre. L'espressione ritoccata dai chirurghi, nel tentativo di ringiovanirla, era come cristallizzata. I capelli tinti, quasi incatramati, erano impeccabili. Non c'era traccia di emozione sulla sua faccia. E le sue parole suonavano ferme. Nessuna traccia dell'umiliazione senza precedenti per un raìs, appartenente a una società militare al potere dal 1952, che viene respinto dalla gente del suo paese, in rivolta, e tenace, decisa nel chiedere democrazia. Un'umiliazione pesante, aggravata dall'accusa di corruzione. Ieri è sembrato, per alcune ore, che la rivolta democratica avesse trascinato con sé le forze armate. Di cui lui, Mubarak era il comandante supremo.

Milioni di egiziani, decine di milioni di arabi, hanno trattenuto il fiato fino a quando non si è capito che il rais non se ne andava. Come si era pensato. Come era stato annunciato. Ma che al contrario restava, caparbio, impassibile al suo posto. Una beffa. Una tragicommedia
. Si è udito come un tuono. Invece dell'entusiasmo espresso fino allora, è esplosa la collera, la rabbia delle due, trecentomila persone raccolte in piazza Tahrir. L'eco della rabbia popolare ha invaso le sponde del Nilo.

Oltre alla tragicommedia c'è un giallo. Un giallo non solo egiziano. Sembrava che i massimi responsabili dell'esercito avessero seguito la volontà popolare, scavalcando il governo e i generali fedeli a Mubarak. E lo avessero fatto con la benedizione di Barack Obama, poiché il capo della Cia, Leon E. Panetta, aveva lasciato capire a Washington, nel pomeriggio, che lui era a conoscenza dell'imminente partenza di Mubarak. Era una questione di ore. L'Alto Consiglio delle forze armate egiziane, di cui non si ricordano altri annunci, si era riunito in una seduta straordinaria e aveva comunicato al paese di essersi assunto il compito "di proteggere la nazione e di sostenere le legittime domande del popolo". Alla seduta del Consiglio non era presente Hosni Mubarak, che pur era ancora formalmente il comandante supremo delle Forze armate, ed era assente anche il vice presidente della Repubblica, il tenente generale Omar Suleiman, ritenuto l'uomo forte del momento e il più probabile successore di Mubarak.

Suleiman e Mubarak, e con loro il primo ministro
Ahmed Shafiq, un ex generale, come ha mostrato la tv pubblica del Cairo, si erano incontrati a parte, mentre il Consiglio era riunito, e questo aveva fatto pensare che la decisione degli alti ufficiali fosse stata presa contro la loro volontà. Fino all'ultimo il ministro dell'informazione, Anas Fekky, aveva in verità continuato a negare che Mubarak stesse per dimettersi. Per lui il presidente avrebbe forse rinunciato al potere reale, ma avrebbe conservato formalmente la carica. Il dissenso tra i fedeli di Mubarak e i membri del Consiglio risultava, perlomeno appariva, molto aspro. Si diceva che il feldmaresciallo Tantawi, ministro della difesa, che aveva presieduto il Consiglio, avesse rimproverato a Omar Suleiman di non avere impedito, nei tanti anni in cui è stato a fianco di Mubarak e alla testa dei servizi segreti, il dilagare della corruzione, e il coinvolgimento della famiglia presidenziale in quasi tutti gli abusi economici e finanziari degli ultimi decenni.

Non si escludeva tuttavia che Omar Suleiman sarebbe stato chiamato a ricoprire provvisoriamente la carica lasciata libera da Mubarak. Lo stesso Mubarak, pur essendogli riconoscente per la fedeltà dimostrata, avrebbe potuto autorizzarlo a prendere il suo posto. Dal quale Suleiman poteva esercitare un potere assai limitato, visto il ruolo che si era assunto il Consiglio. Egli poteva servire nei rapporti con gli Stati Uniti e Israele, e in sostanza continuare ad essere per il momento l'uomo indispensabile negli equilibri mediorientali. Dei quali l'esercito egiziano è uno degli elementi essenziali.

Era una truffa? Un'illusione in cui è caduto l'intero paese? Quel che era accaduto poteva assomigliare a un colpo di Stato. Anche se i militari dicevano che si trattava di un "consenso" alla volontà popolare. E cosi è stato interpretato in piazza Tahrir. Il generale
Hassan Rueini, comandante della piazza militare del Cairo, il primo a scendere in pubblico per annunciare quel che l'Alto Consiglio delle forze armate aveva deciso, è stato accolto con sventoli di bandiere e da una folla che scandiva: "il popolo e l'esercito sono una cosa sola". La stessa accoglienza l'hanno ricevuta i generali che non hanno esitato ad avvicinare i giovani del movimento del "6 aprile", scintilla della rivolta. Il Consiglio delle forze armate ha promesso altri comunicati. Al "numero uno" ne seguiranno altri. I generali restano riuniti in permanenza. I generali recitavano un copione ben preparato? Oppure il presidente e il suo fedele Omar Suleiman li hanno beffati.

Si pensava che l'esercito avesse deciso di affrettare i tempi e di spingere il riluttante Mubarak alle dimissioni anzitutto per evitare che la protesta di piazza Tahrir trascinasse il resto del paese creando una situazione incontrollabile. Per oggi era prevista una manifestazione di protesta, che si annunciava più imponente di quelle precedenti. Negli ultimi giorni si erano moltiplicati gli scioperi nei maggiori centri, in favore dei giovani di piazza Tahrir: e gli scioperanti, oltre a paralizzare l'industria, i trasporti e la pubblica amministrazione, avrebbero appesantito la mobilitazione contro Mubarak. Difficile immaginare quel che accadrà oggi, quando i manifestanti beffati si riverseranno sulle piazze. Altrettanto difficile immaginare il comportamento dell'esercito. E' stato complice o anche lui beffato?

E' tuttavia assai improbabile che i militari, comunque molti di loro, abbiano agito in malafede. Le divisioni nelle loro file si sono approfondite via via che si precisavano le denunce di corruzione rivolte alla famiglia presidenziale.

Se la dignità della società militare poteva essere ferita dalla cacciata del loro capo, il presidente della Repubblica; la rispettabilità della casta era seriamente intaccata dalle rivelazioni sull'affarismo della famiglia Mubarak. Il brusco allontanamento di
Gamal Mubarak, il secondogenito, dalla direzione del Partito nazional democratico, il partito pigliatutto, è stato un primo segnale dello scontento che cresceva all'interno dell'esercito. Il presidente avrebbe voluto Gamal come successore, ma i militari non volevano quel personaggio estraneo alla loro società, responsabile insieme al fratello Allaa di avere trasformato il Pnd in un centro di affari. E poche ore dopo la cacciata di Gamal dal partito, voluta - pare - dai militari è stato il turno di Ahmed Ezz, amico dei fratelli Mubarak, e principale protagonista della corruzione. La giustizia l'ha già incriminato.

Della tragicommedia fanno parte anche i rapporti tra Washington e il Cairo. Sono rapporti che hanno radici profonde. Il triangolo Stati Uniti-Egitto-Israele è alla base dell'equilibrio nella regione. Dagli accordi di Camp David (1979), che hanno condotto al riconoscimento reciproco tra il Cairo e Gerusalemme, gli Stati Uniti versano annualmente alle forze armate egiziane un miliardo e mezzo di dollari. In tutto da allora trentacinque miliardi. Denaro che consente all'esercito egiziano di dotarsi di armi abbastanza sofisticate. Quel che è accaduto ieri compromette i rapporti tra Washington e il Cairo? Certo Washington pensava che al Cairo avvenisse infine la transizione auspicata poco prima, ancora una volta, dallo stesso Barack Obama. Anche lui è stato beffato?

(11 febbraio 2011)

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

VUOI VEDERE CHE HA CHIESTO CONSIGLIO A B. SU COME RESTARE INCHIODATO ALLA POLTRONA?