venerdì 18 febbraio 2011

UNA DIVA IN FUGA


Era già scappata dal mondo 45 anni fa Mai vista nei salottini televisivi del pomeriggio

di Nanni Delbecchi

Non ci sono più le malafemmine di una volta. Questa è la prima cosa che viene da pensare di fronte alla notizia del suicidio di Maria Luisa Mangini, in arte Dorian Gray, passata alla storia come la più celebre sciantosa del nostro cinema in Totò, Peppino e la malafemmina. Per quel che riguarda Totò e Peppino De Filippo, qualche analogia con il presente si potrebbe anche trovare. Per esempio, non vedremmo male il celebre agente Lele Mora e il direttore del Tg4 in un ipotetico remake intitolato “Emilio, Lele e le malefemmine” (anche se il principe De Curtis, a chi gli avesse proposto di fare la cresta ai suoi compensi di accompagnatore di femmine, avrebbe risposto “Ma mi faccia il piacere!”). Invece per quel che riguarda Dorian Gray, che tutti ricordiamo ipnotizzare con il suo décolleté Totò e Peppino (quelli veri), e che si è sparata un colpo di pistola a 75 anni dopo un silenzio duratone 45, ogni paragone con l’oggi è possibile solo per paradosso e per contrasto.

OGGI le malefemmine, vere o presunte che siano, sono intere legioni, in competizione tra loro senza esclusione di colpi, e tutte perennemente affamate di visibilità. C’è chi va da Signorini a farsi fotografare e chi preferisce farsi intervistare (sempre da Signorini), chi va in Bulgaria con i voli di Stato, e chi si fa candidare direttamente in politica, perché ha capito che è lì la vera festa – e soprattutto è lì il vero avanspettacolo – nell’Italia di Silvio Berlusconi.

Quello in cui si rivela la giovanissima Maria Luisa Mangini è invece l’avaspettacolo-avanspettacolo dell’Italia degli anni Cinquanta, la rivista e il varieté in cui la maggiorata muove i primi passi ancora quattordicenne: passi di danza, si capisce, ed entra a far parte della schiera delle donnine di Macario, oggi citate a sproposito come le progenitrici del bunga bunga. Si sceglie questo impegnativo nome d’arte tratto dal romanzo di Oscar Wilde, romanzo in apparenza brillante ma in realtà profondamente tragico, imperniato sul tema della caducità della bellezza.

E CON QUEL nome comincia a calcare le passerelle in crinoline, calzamaglia e paillettes; da Macario a Garinei e Giovannini, passando per Gino Bramieri, Raimondo Vianello e Wanda Osiris. Quel mondo di belle hawaiane che non sanno dove andare se non hanno le banane rievocato una volta per tutte da Alberto Sordi e Monica Vitti in Polvere di stelle. Ma non c’è solo polvere di stelle nella breve e misteriosa carriera di Dorian Gray. Subito dopo c’era stato anche il nitrato d’argento della celluloide, quando ancora il cinema era in bianco e nero e c’erano in pista altre signorine grandi firme come Silvana Pampanini, Marisa Allasio, Silvana Mangano; ma nella memoria la più bionda di tutte resta proprio lei, la “malafemmina” per eccellenza. Chissà come faceva a risultare così irresistibilmente bionda nel bianco e nero. Eppure ci riusciva; e mai così bene proprio come in compagnia di Totò e Peppino, nei panni della prima ballerina che fa perdere la testa al nipote scavezzacollo interpretato da un giovanissimo Teddy Reno. Da lì, dopo un Nastro d’Argento vinto per Mogli pericolose di Comencini, prese il via una carriera con alcuni ruoli importanti anche nel cinema d’autore. Federico Fellini la chiamò a recitare il ruolo di Jessy, l’amante di Amedeo Nazzari, in Le notti di Cabiria e Michelangelo Antonioni la volle in uno dei suoi primi capolavori Il grido. Ma a metà del decennio successivo, a trent’anni appena compiuti e al culmine della famosa visibilità, ecco la svolta improvvisa. Tutto a un tratto la bionda in bianco e nero abbandona lo spettacolo e si ritira a vivere in Trentino, nella zona d’origine della madre. Si fa costruire una villa con tanto di muro di cinta a Torcegno dove conduce un vita ritiratissima, sola insieme al figlio. Di lei non si sentirà più parlare, al punto che quel colpo di pistola che arriva dopo 45 anni di silenzio lascia aperto più di un interrogativo, proprio come in un film di Antonioni. Ci si chiede quale motivo possa averla spinta a un gesto così estremo, come se un motivo ci debba essere per forza. Certo, non sarà facile venirne a capo. La “malafemmina” non ci ha lasciato interviste esclusive, né partecipazioni a salotti televisivi, né memoriali segreti; su Youtube nemmeno un filmato risponde al suo nome vero, né a quello d’arte.

NON CI SONO più le male-femmine di una volta. A chi si straccia le vesti per la violazione della privacy e grida allo spionaggio globale, la scomparsa di Anna Maria Mangini ricorda con i fatti una verità indimostrabile a parole; che essere dimenticati dal mondo è fin troppo semplice, basta volerlo. Il mondo, in fondo, non aspetta altro.

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