MIMMO CÁNDITO
AJDABIYA. Questa è una storia di guerra, ma non di quelle della televisione, che hanno sempre un eroe bello e sfortunato, le palme sullo sfondo, e ti fanno piangere. No, questa è una storia senza eroi, una storia di gente qualunque, anche sfigata, e magari brutta, gente che si trova a fare la guerra senza nemmeno saperne bene la ragione e però la fa ugualmente, soltanto perché quando si è gente qualunque i doveri si rispettano sempre.
Bachir Marghei ha 40 anni, tre figlie e un maschietto, e fino a un mese fa era ingegnere petrolifero in una società di Bengasi. Ieri l'ho trovato sulla strada che porta ad Ajdabiya, un berrettaccio di lana lo copriva fin quasi agli occhi, e aveva una palandrana militare alle ginocchia e le scarpe da passeggio. «Alt!», ha detto alla mia macchina, e l'autista gli ha fatto: «Ma è un giornalista». Lui ha ripetuto no con la testa: «Stampa o no, se vai avanti ti ammazzano». Era l’ultimo check-point prima di raggiungere Ajdabiya, la città dentro cui è assediata una colonna di gente di Gheddafi. «La dentro saranno forse in 120, hanno 7 tank, una dozzina di katiuscia, e si cagano sotto dalla paura. Ma se ti avvicini ti stendono come niente».
Bachir non è un eroe, però da un giorno all'altro è diventato un soldato, il comandante di un importante check-point, e nemmeno se la tira. «C’era la libertà sulla strada della Libia, e io ho scelto». Sì, ma i tuoi, chi ci bada? «Ho un fratello a Bengasi, e poi i nostri vicini di casa danno sempre una mano a mia moglie».
Non è un eroe, però, vivaddio, è anche lui di carne. E di fronte al reporter che lo accarezzava sul braccio e gli dava solidarietà, non ha saputo tenersi: «La notte scorsa, approfittando che c'era un attacco degli aerei francesi mi sono avvicinato ai carri di Gheddafi. Strisciavo lungo un fiumiciattolo asciutto e stavo coperto da una duna di sabbia. All’improvviso ho visto il tank nel buio, di fronte a me, non più di 30 o 40 metri. Ho tirato con il mio lanciagranate, è esploso in fiamme». E si calava e si drizzava il suo berrettaccio.
Forse è per questo racconto che mi ha concesso di andare oltre, fino alla prima linea, dove nessun reporter può arrivare. L'interprete nicchiava, «Ma è pericoloso», mentre l'autista, un ragazzo che ha studiato in Florida, era tentato assai e spingeva il suo compagno parlandogli stretto in arabo. Siamo andati avanti lentamente, molto lentamente. La strada, al riparo della duna, era piena di soldati - chiamiamoli così, ma è una follia - e di pick-up parcheggiati, e tutti, anche i pickup, ci guardavano straniti sfilargli accanto. «Markhaba», buondì, buondì. Sembravano i figli dell’armata Brancaleone, un pugno di ragazzi, chi vestito da Rambo, chi con i jeans e un foulard chiccoso, chi con le braghe coloniali e la kefiah, chi in una improbabile uniforme, ma tutti, o quasi, con le scarpe da ginnastica o le ciabatte.
Siamo arrivati fin dove la duna si consuma, e forse da laggiù, dalla città, ci hanno visto, perché un tank ha tirato una cannonata che ha rotto il caldo ardente del sole. Non abbiamo fatto a tempo a sentire il tuono, che il colpo era già caduto a 100 metri da noi, sulla destra, alzando nel cielo una grande nuvola di sabbia. «Allah u akhbar», ha gridato in coro l'armata Brancaleone tirando su le braccia, e l'interprete si è tuffato sotto un pick-up. In mezzo minuto, da qui hanno risposto con un lancio di granate. Un lancio inutile, ma fa sempre cinema; e in guerra il cinema ha sempre effetto. Voleva dire: ehi, tu, cannone, guarda che qui ti teniamo d'occhio.
Fine della mia guerra. Si è avvicinato un altro comandante, piccolo, grasso, autorevole, con un giubbotto di pelle, le scarpe da passeggio, e un kalashnikov di traverso sul torace. Si è presentato: Mustafa al Serghesi, ingegnere informatico. Ingegnere anche lei? «Sì, ma ora comando il campo di addestramento di Bengasi. Mi passano sotto le mani circa 2000 ragazzi la settimana, e tutti questi li ho formati io», e allargava il braccio verso i figli di Brancaleone. Lo ascoltavo un po’ perplesso, poi gli ho detto con ogni cortesia possibile: «Vabbè, ma dall’informatica a fare la guerra nel deserto ce ne passa, mi pare». Mi ha guardato sprezzante, dal basso: «Perché, Castro e il Che erano dei soldati? Eppure hanno fatto la rivoluzione». L'ingegnere Mustafa non è nemmeno lui un eroe, in questa guerra senza eroi, ma mi ha dato una lezione solenne: «La motivazione, sai. Quando un uomo è motivato, nulla gli è impossibile. Gheddafi lo sta imparando». Poi mi ha stretto la mano, forte, tranquilla.
Siamo tornati da Bachir assai più veloci di quando lo avevamo lasciato. Gli ho chiesto della gente di Ajdabiya che sta scappando dalla città sotto assedio. Mi ha fatto vedere un’auto che si stava immettendo sulla strada (questa è ancora la vecchia strada di Italo Balbo, pur ripulita e riasfaltata), venendo da una piccola pista laterale che si perdeva nel deserto. Sono corso addosso all'auto, uno scatolone bianco guidato da un vecchietto con pochi denti. Dentro, affollati come in un pollaio, c'erano due donne e 11 bimbi di ogni età, dai neonati ai ragazzetti, «miei figli». Che Allah lo benedica. «Siamo scappati ieri notte, la città si è vuotata, la paura non ci faceva dormire, e non c’era più acqua né elettricità né niente da mangiare». E poi? «Abbiamo dormito dentro la macchina, accanto alle altre auto. Ce ne saranno un centinaio, e nel deserto la notte è fredda assai. Un vicino ci ha dato del pane per i bambini, che Allah lo salvi». È ripartito verso Bengasi, dentro una nuvola di olio bruciato e di puzzo che chiudeva la gola.
Ma c'è un altro non-eroe di cui parlare, uno che si è avvicinato al finestrino del vecchietto mentre partiva, e gli ha dato un pezzo di carta con un numero di telefono scritto a penna. «Gli ho detto che lì può chiedere aiuto, gli daranno cibo e un tetto». Quest’ultimo non eroe si chiama Massud Bwiguiz (o un cognome simile, lo leggo male nel taccuino), faceva il panettiere ad Ajdabiya, poi la settimana scorsa è scappato e ora tiene il filo tra questi che scappano e un’organizzazione caritatevole. Lo spirito di solidarietà sta dentro l’Islam come dentro il Cristianesimo; qualcuno lo dimentica, qualcuno no. «Sto qui giorno e notte», ha detto con qualche pudore Massud, e si tirava la barbetta rossa sulla galabia zozza.
Ah, e la guerra? È fatta così, di ragazzi e ingegneri che sognano la libertà e però aspettano i razzi dei Mirage della Nato per poter vincere la loro battaglia. E sperare che il sogno non resti un sogno. L’impotenza a chiudere è di Gheddafi ma anche dell’armata Brancaleone: per questo, tutti, in Libia, attendono il miracolo.
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