GIANFRANCO PELLIZZETTI
La parola “clandestino” rimbalza freneticamente nel dibattito pubblico italiano, in bilico tra l’aspirazione di cancellarne la presenza in quanto non-persona e l’oscuro senso di minaccia incombente di un altro-da-sé ignoto; automaticamente collegato all’illegalità, alla criminalità. Il clandestino – in senso stretto “chi viaggia senza documenti” – è il tormentone della nostra società sempre più accartocciata su se stessa e anche il segno della sua cattiva coscienza. Quella cattiva coscienza per cui l’unico problema è quello di respingere l’arrivo del migrante, con le buone o le cattive: con la carota di una mancia alla disperazione (2 mila euro) o il bastone dell’uso della forza. In un mondo che si vuole globale, dove le merci e i capitali circolano senza frontiere, si intensificano controlli alla frontiera per immigrati e rifugiati.
Non è sempre stato così. Agli albori dell’età moderna avveniva esattamente l’opposto: era l’espatrio a essere considerato reato e in Francia Colbert lo puniva con la pena di morte, mentre l’Inghilterra ne regolamentava i flussi in chiave restrittiva. Viceversa, almeno a partire dalla fine delle guerre di religione, i governi si ingegnavano per attirare gli arrivi dall’esterno di donne e uomini in fuga dalla madre patria. Nel 1685 Federico Guglielmo favorisce l’insediamento in Prussia degli ugonotti cacciati dalla Francia, dopo la revoca dell’Editto di Nantes. Nello stesso tempo Ginevra incentiva l’arrivo di orologiai francesi, all’origine di una specializzazione di territorio che si è conservata fino ai nostri giorni (nel 1515, quando si guastò l’orologio della chiesa di Saint Pierre, nella città lemana non c’era un solo artigiano capace di ripararlo; verso il 1600 funzionavano già trenta botteghe di orologeria). Persino
Oggi si pensa il contrario. Al di là delle pur prevalenti considerazioni d’ordine umanitario, la tesi che qui si vuole sostenere è la mutata percezione del valore rappresentato dall’immigrazione; ciò che apporta e quanto – invece – sottrae. Appunto, il valore economico. Forse la spiegazione ce la fornisce una battuta di Hans Magnus Enzensberger: “Dove il conto in banca è a posto, l’odio per gli stranieri svanisce come per miracolo”.
Eppure – parlando di casa nostra – senza gli immigrati (sovente “clandestini”) in Italia si fermerebbero interi settori produttivi. Per citarne i meno noti, come la vetroresina, in cui la prevalente manovalanza specializzata è senegalese, o il restauro urbano, le cui antiche tradizioni locali sono ormai praticate esclusivamente da maestri artigiani maghrebini. L’assistenza agli anziani viene assicurata da badanti spesso provenienti dall’Ecuador, in una sorta di surrogazione del welfare pubblico con il fai-da-te casereccio. Tutto questo non ha valore? Dipende dai criteri adottati. Se il problema è la creazione di nuova ricchezza, il fattore umano diventa prezioso e determinante. Ma se prevale la difesa della rendita, allora l’irruzione di flussi umani esterni si trasforma in una pericolosa turbativa.
In effetti le nostre società sono diventate sempre più vecchie e impaurite, egoiste e statiche. Per questo hanno successo politiche basate sulla diffusione del panico, affiancate alla generica promessa di soluzioni che blindino l’esistente. Una immunizzazione psichica che aggrava il problema. Ma il problema è insito nella psicologia collettiva sclerotizzata della società. Cui farebbe bene importare forze giovani, magari i ragazzi e le ragazze internet-alfabetizzati dell’altra sponda del Mediterraneo. Quei giovani egiziani e tunisini che hanno osato ribellarsi contro l’oscurantismo e l’oppressione di regimi decrepiti. Il migliore antidoto contro il fondamentalismo, compreso quello delle comunità chiuse a difesa del proprio precario benessere.
Il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2011
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