PIERFRANCO PELLIZZETTI
Il disastro nucleare di Fukushima riporta la drammatica centralità della questione energetica al primo punto nelle agende della discussione pubblica. Con il solito vizio pernicioso di ridurre tale discussione a un confronto tra sordi, dove le opposte fazioni propugnano i propri assunti come professioni di fede. Nella trasformazione degli argomenti tecnologici e scientifici in una sorta di teologia salvifica: “Nucleare sì perché di nuova generazione, dunque sicuro” (ditelo ai giapponesi) oppure “energie alternative rigenerabili in quanto ampiamente sostitutive di quelle sporche in esaurimento” (ottimismo della volontà o grande illusione?). Una babele tecno-teologica in cui sguazzano quegli interessi inconfessabili che si attivano al minimo sentore di “grandi opere” in arrivo.
Ma nella confusione davanti a problemi che investono la stessa sopravvivenza della specie, per non dire quella del pianeta, un punto – a volerlo vedere – risulta chiaro: questo accapigliarsi si muove all’interno di coordinate concettuali sostanzialmente condivise da tutti i contendenti, quanto sottratte al vaglio della riflessione critica, tradotte in un modello organizzativo della società che viene presupposto come immutabile. Il modello, in cui noi occidentali viviamo da un secolo, basato sulla disponibilità di risorse energetiche abbondanti e a basso costo. Con relative dissipazioni. Dal trasporto privato all’edilizia abitativa, alla distribuzione. Ai tempi della vita. Per cui il tema si riduce alla pura e semplice ricerca di sostitutivi agli idrocarburi in esaurimento; i quali sostituti, presentati come panacea, consentano di poter mantenere immutato uno stile di vita e consumo che non si intende minimamente mettere in discussione.
Difatti, riguardo al nucleare, in discussione è la sicurezza delle centrali; non che il loro funzionamento presuppone l’utilizzo di materiali scarsi e destinati anch’essi a un rapido esaurimento. Così come la cosiddetta “economia all’azoto”, propagandata dai “professionisti delle energie alternative” alla Jeremy Rifkin, si traduce nella promessa del mantenimento senza alterazione alcuna degli standard vigenti. E persino i profeti del solare o dell’eolico predicano mantenendosi all’interno dello stesso schema mentale. Che poi è il solito mito prometeico della crescita quantitativa infinita. Puro controsenso in un mondo finito. Ma quanto (pericolosamente) rassicurante!
Insomma, una sorta di gattopardismo all’insegna del “che tutto cambi, purché tutto resti come prima”. Questo il motivo per cui la questione energetica rimane appannaggio delle varie consorterie di tecno-teologi. E ognuno si sceglie il proprio, in base ai personali bisogni di rassicuramento psicologico. Per non sentirsi dire che – comunque vada – ci stiamo avviando verso inevitabili scelte all’insegna della sobrietà, che imporranno una radicale trasformazione della società. Argomento ansiogeno, quindi da rimuovere. Sicché non ci si rende conto (o si rifiuta di ammettere) che il nocciolo della questione non è tecnologico ma – bensì – squisitamente politico: come organizzare il quotidiano e il futuro tenendo conto del limite insuperabile rappresentato dalla scarsità.
Ossia la sfida di progettare il comune futuro attraverso un discorso pubblico che coinvolga uomini e donne informati: la rivitalizzazione della nostra democrazia asfittica. Che John M. Keynes prefigurava già nel remoto 1925: “La transizione dall’anarchia economica a un regime che mira deliberatamente al controllo e alla direzione delle forze economiche nell’interesse della giustizia e della stabilità sociale presenterà difficoltà enormi, sia tecniche che politiche. Ritengo tuttavia che il vero destino del nuovo liberalismo consista nel tentare di risolverle”.
Un passo ben difficile nella vigente fase storica, in cui la politica è stata mandata a spasso, licenziata dall’economico con il suo codazzo di esperti non sempre disinteressati. Mentre si diffonde il nuovo oscurantismo tecno-teologico.
Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2011
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