di BERNARDO VALLI
TOBRUK - Mentre l'offensiva di Gheddafi si intensifica a Bengasi, e in tutta
È una partita di scacchi nel deserto, con le città come pedine. Città che gli uni affermano di avere catturato, e che gli altri sostengono di avere liberato e di poterle difendere. È un'altalena di bugie. Ed è spesso un improbo esercizio inseguire la verità. La guerra psicologica, alimentata dalla propaganda delle due parti, mette a dura prova i nervi della popolazione. Oltre ai morti nei cimiteri e ai feriti negli ospedali, ci sono i fantasmi moltiplicati dalle false notizie. Mentre arrivavo a Tobruk, voci insistenti davano per certa la presenza di mercenari con le bandiere verdi di Gheddafi alla periferia. Ed era un falso.
Percorro centinaia di chilometri nel vuoto, tra il grigio della sabbia e l'azzurro del mare primaverile, con l'ansia, diciamo pure il timore, di imbattermi nei soldati di Tripoli che, mi dicono, scorrazzano su camion bianchi "made in Japan". Per loro io sono un fuorilegge, essendo senza un visto rilasciato da Tripoli. Spero invece di incontrare i ribelli. Con loro sono inevitabilmente amico. Ma adesso cominciano ad esprimere un malcelato rancore. Sei un occidentale, hai fatto tante promesse, cosa aspetti a darci una mano? La cornice lunare suscita languore e sbalzi di adrenalina.
Sulla strada da Sollum, ultima località egiziana, e Tobruk prima grande città libica, a un posto di blocco c'è un ragazzo con un bastone pittato di bianco che neanche mi guarda; e poi, un centinaio di chilometri più in là, a un altro posto di blocco, un giovanotto insonnolito si appoggia sul Kalashnikov come se fosse un bastone.
Ancora più in là, sulla strada per Bengasi, la metropoli della Cirenaica liberata e posta in gioco decisiva, lungo centinaio di chilometri è lo stesso vuoto. Mi chiedo dove sia l'esercito degli insorti. Siamo nascosti, giurano gli uomini con la coccarda della bandiera della rivoluzione, che è poi quella dei re Senussi deposti più di quarant'anni fa da Gheddafi.
Bisogna pur tentare un bilancio. Misurata? La davo già in mano al raìs di Tripoli, e invece la sorte di quell'importante porto della Tripolitania sarebbe ancora incerta, poiché lo stesso regime del raìs annuncia nella mattina che è in corso un'operazione per controllarla. Gli insorti affermano di avere ucciso ottanta soldati di Gheddafi e di avere abbattuto due aerei. Eppure Misurata è a portata di mano. Tripoli stenta dunque a domarla.
L'inaspettato recupero di Gheddafi non è poi tanto trionfale. Il raìs, pur ringagliardito, arranca. Lo stesso vale per la più lontana Ajdabiya, città chiave della Cirenaica, perché è uno snodo di strade che portano a Kufra, a Tobruk, a Sirte, ma soprattutto a Bengasi. Caduta Ajdabiya, si affermava ieri, Bengasi non ha scampo. Dopo i bombardamenti di martedì e di mercoledì Ajdabiya sembrava perduta per gli insorti, sopraffatti da qualche carro armato e dalle incursioni aeree.
La notizia, confermata, smentita e di nuovo confermata, ma rimasta nel dubbio secondo gli insorti, convinti di avere ancora qualche nido di resistenza, ha provocato un piccolo esodo da Bengasi, in particolare il ripiegamento su Tobruk (a sei ore di automobile) di molti giornalisti stranieri. I quali si sono lasciati alle spalle una città tranquilla, ma con sempre meno bandiere della rivolta e la gente inquieta anche se composta. Le ultime notizie dicono che le truppe leali al raìs sono a settanta chilometri dalla periferia.
Pacato, in apparenza sicuro di sé, il generale Abdel Fatah Yunis, comandante militare degli insorti a Bengasi, sostiene che nonostante la vicinanza dei nemici a Ovest, e il lancio di missili a parecchi chilometri dall'abitato (e pare in prossimità dell'aeroporto), la città non si sente minacciata e comunque resisterà. Nello stesso tempo, Tripoli proclamava che entro 48 ore l'intero Paese sarebbe rientrato nell'ordine. Di ore, mentre scrivo, ne dovrebbero mancare ormai poche. Ma qui a Tobruk non c'è nulla di nuovo. E lo stesso vale per Bengasi, anche se le truppe leali al raìs si avvicinano da Ovest e si preparano a un attacco.
È un fatto, Gheddafi guadagna terreno. Per questo gli insorti a Tobruk e Bangasi hanno festeggiato a lungo il voto del Consiglio di Sicurezza che ha autorizzato la no-fly zone, destinata a impedire le incursioni aeree, insieme ad altre misure per "proteggere i civili". Per loro è un bel sollievo, e potrebbe essere la premessa di altri aiuti, ancora più concreti. Un intervento più diretto (a terra?), fermerebbe la riconquista del raìs. I "giovani" (shabab) stentano a cavarsela da soli. Si difendono ma non riescono a promuovere offensive in grado di riprendere il terreno perduto. Frenano l'avanzata del nemico, è vero; danno l'impressione di essere più organizzati, di non agire più come bande improvvisate; riescono ad allungare i tempi. Non di più.
L'occupazione di Ras Lanuf, il 10 marzo, da parte delle truppe di Tripoli, ha segnato una svolta. Gli insorti ritenevano Ras Lanuf, località nel deserto che circonda il Golfo della Sirte, una loro base inespugnabile, capace di stabilizzare la linea del fronte. Invece quel bastione è caduto in poche ore, aprendo una breccia incolmabile.
Quella sconfitta ha inferto un severo colpo al morale dei combattenti, la cui forza era dovuta più all'entusiasmo che alla capacità militare.
L'insurrezione, generosa e confusa, si sta dissolvendo?
Rischia di lasciare nelle città e nel deserto soltanto macchie di sangue? È difficile, dopo tante promesse e incoraggiamenti occidentali e arabi, dopo aver sentenziato dalle nostre capitali l'inevitabile, imminente crollo del raìs, non provare adesso una certa vergogna. L'inerzia di chi potrebbe tendere la mano assomiglia alla viltà. Gli sguardi sempre più carichi di rancore che raccogli tra gli insorti lasciano un segno.
Forse non è troppo tardi. La partita non è del tutto conclusa. Bengasi e Tobruk, e larga parte della Cirenaica, tradizionalmente insubordinata allo strapotere del raìs, non sono ancora state sottomesse. Sulla piazza di Tobruk, battezzata Tahrir (Liberazione), come quella del Cairo, si è radunata una piccola folla. Al muro incollato a una moschea semivuota, sono appese le fotografie delle vittime antiche e recenti della "dittatura verde" di Gheddafi. La gente le guarda in un silenzio che cerco di rompere ponendo domande provocatorie. Chiedo dove sia l'esercito che dovrebbe difendere la città. Non ne vedo traccia. Non ho incontrato un solo uomo armato in tutta Tobruk. Mi risponde un signore attempato, un ingegnere dell'industria petrolifera, che in città occupa più di seimila persone. Mi invita, asciutto, a non preoccuparmi. Tobruk come Bengasi sarà difesa casa per casa. Mi sembra un atto di fede e non insisto. Gli sguardi freddi dei presenti lo impediscono.
Quello delle tribù è un capitolo importante. In quarant'anni Gheddafi ha ridotto a un deserto il paesaggio politico libico. Né ha creato le più elementari strutture che reggono uno Stato. È sopravvissuto soltanto il tessuto sociale e tribale. Il raìs è stato capace di controllare, col bastone e la carota, con la repressione e il denaro del petrolio, il mosaico delle tribù. Il 17 febbraio quel mosaico è saltato.
Il sostegno a Gheddafi viene soprattutto dai Warfalla, installati a 180 chilometri a Sud Ovest di Tripoli, i quali formano una tribù potente, con numerose comunità, tra le più scolarizzate e influenti, nella capitale. Il raìs dispone inoltre della propria tribù, con Sirte come centro, a 500 chilometri dalla capitale. Tra i Warfalla e i Kadhafa esiste un antico "legame di sangue" ed anche una comune avversità nei confronti delle altre numerose tribù che si chiamano Awaker a Bengasi, Elgobai a Tobruk e così via. È un labirinto nel quale lo straniero si smarrisce, ma è anche un labirinto in cui si possono decifrare forse tanti aspetti della guerra civile in corso.
(18 marzo 2011)
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