domenica 20 marzo 2011

Tra i disperati del palasport "Non vogliono farci il test"


NICOLA LOMBARDOZZI

TOKYO - Ma che saranno veramente queste radiazioni? Non si vedono, non fanno male, me ne sarò beccata qualcuna anch'io? Perché nessuno ci controlla, ci dice qualcosa? Dove saranno quelle macchinette che si vedono sempre in tv? E poi, sapere la verità, servirebbe a qualcosa, potrebbe salvarci? Pensieri cupi di seicento anime turbate, prima avanguardia dei profughi dello tsunami arrivati a Tokyo senza casa, senza lavoro e senza futuro. E radunati su mille tatami dai colori pastello in una coreografia in perfetto stile "efficienza e sobrietà" tanto cara al governo giapponese.

Quartiere Adachi, periferia nord est della capitale, da dove chi poteva è già partito e chi non può preferisce restarsene in casa con scorte di viveri e benzina. Palazzetto dello sport Budo, uno dei tanti templi rionali delle arti marziali. Qui la prefettura di Tokyo ha radunato i primi profughi dei villaggi che circondavano la città di Ivaki. Quei villaggi che da otto giorni rivediamo travolgere dalle onde del Pacifico nelle scene dei video amatoriali e che distavano appena una quarantina di chilometri dalla centrale nucleare in fiamme di Fukushima. "Distanza di sicurezza" per il governo che si ostina a ritenere ufficialmente a rischio solo le zone nel raggio di trenta chilometri dai reattori fuori controllo. E per questo i solerti impiegati della prefettura si sono occupati di ospitarli, di accudirli, perfino di consolarli. Ma di controlli di radioattività nemmeno a parlarne. Come mai? “Non è previsto” isponde, dopo il rituale profondo inchino, l'impiegato comunale Michiado Haisaki che, quando non ci sono catastrofi naturali, si occupa di organizzare mostre sullo sport cittadino. La verità è che uomini e mezzi sono tutti impegnati al nord a combattere un nemico invisibile in una lotta non ancora decisa. Haisaki lo sa bene: "Non possiamo fare i test a tutti. Ne abbiano fatto qualcuno solo a chi era particolarmente preoccupato". E che è uscito in strada per andare a farsi le analisi a spese proprie.

Per gli altri solo tormenti e mugugni in uno scenario apparentemente sereno, quasi surreale. Sul parquet del campo centrale, sovrastati da un soffitto di acciaio e da un ovale di tribunette numerate e vuote, sono state allestite con separé non più alti di un metro, microstanze a vista, tutte uguali, solo con i colori dei tappetini leziosamente scelti con cura: due gialli e uno azzurro, poi due verdi e uno rosa e poi ancora due azzurri e uno giallo. In ogni loculo siedono, mangiano e dormono gruppi familiari giovani, coniugi con bambini piccoli che saranno una trentina nel totale. La privacy non esiste ma va bene così. Ci sono gli spogliatoi degli atleti per cambiarsi e i bambini socializzano felici. La stanza che serviva per il riscaldamento è stata invece arredata con gli stessi criteri per gli anziani.

Su due lunghi tavoli, in quello che era il corridoio di ingresso degli spettatori, c'è poi il regno dell'organizzazione nipponica: bottigliette di tè, un megaschermo a cristalli liquidi sempre sintonizzato sui notiziari, una catasta di gommosi facsimile di croissant, pigiamini bianchi con pokémon rosa sul cuore, sei telefoni e tre postazioni internet monopolizzate dalle adolescenti del gruppo.

Impeccabile ma non basta. I profughi della Budo Arena hanno tutti lo stesso tormento. Saranno stati contaminati? E rompendo il muro dei troppi luoghi comuni sulla psicologia dei giapponesi cominciano timidamente a protestare. I coniugi Kanamaru che passeggiano in ciabatte tra la folla mettono in dubbio addirittura la sincerità del governo. "Sapete perché non ci controllano?", domanda il marito, operaio senza più fabbrica mentre la moglie annuisce, "perché non vogliono far sapere la verità. Ormai si è deciso che tutto è tranquillo e anche i semplici controlli sarebbero una contraddizione". Lei prende la parola, racconta la storia di una macchina vecchia e troppo piccola per portare in salvo tutti quella sera. Dei suoi anziani genitori rimasti nella loro casetta di Ivaki. "Qui mi rassicurano perché sono a 42 chilometri dalla centrale in fiamme. Mi dite voi che cosa succede esattamente al trentesimo chilometro? C'è forse uno schermo messo dal governo che ferma le radiazioni? Intanto i miei sono isolati, non hanno luce né telefono e non so che fine abbiano fatto".

Non è proprio rivolta ma sfiducia sì. E tanta. Un ventenne in maglietta che di cognome fa Suzuki annuncia con aria complice: "Io domani esco e vado a farmi le analisi da solo. Qui comunque non mi fido. Sarebbero capaci di dirmi il falso pur di non allarmare la popolazione". L'organizzatore di mostre prestato all'emergenza fa finta di non sentire e si inserisce bonario: "La paura è naturale ma qui stanno tutti bene. Tanto che presto, entro fine mese, questa assistenza finirà. E tutti si dovranno cercare dove vivere da soli. Il palazzetto serve per le manifestazioni sportive". Gli sembra una nota di ottimismo ma l'effetto è devastante. I profughi lo accerchiano. "Ma dove andremo?", "Chi dice che tutto tornerà sicuro?". L'impiegato barcolla: "Magari potremmo prolungare per qualche settimana, ma state tranquilli che tutto sta andando per il meglio". Parola della prefettura di Tokyo.

(20 marzo 2011)

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