mercoledì 6 aprile 2011

Troppi rospi ingoiati dalla Lega


Uno strano paradosso vuole che nel giorno in cui Maroni annuncia di aver concluso un accordo con la Tunisia - i cui effetti sono tutti da verificare - per limitare gli sbarchi di migranti, e mentre è alle prese con la più grave emergenza che il problema dell’immigrazione clandestina abbia mai posto negli ultimi 20 anni, la Lega, cioè il partito da cui proviene, sia sottoposta a una sorta di processo.

Processo politico, ovviamente, in cui gli avversari, ma anche molti osservatori accreditati dell’esperienza leghista - guardata ancor oggi, ad oltre vent’anni dalla nascita, come una stranezza - non perdono occasione per misurare e sottolineare le conseguenze di quel che sta accadendo, su un partito che sta, sì, al governo, ma continuando a proporsi come forza antagonista, o addirittura innalzando la bandiera dell’antipolitica, anche adesso che esprime ministri, presidenti di regione e sindaci di grandi città.

Ora, sul fatto che una serie di scadenze e avvenimenti previsti e imprevisti abbia messo a dura prova la maturazione della Lega, e al fondo la sua capacità di assumersi responsabilità nazionali, non ci piove. E altrettanto che soprattutto i suoi esponenti più vicini al territorio e ai sentimenti del «profondo Nord» lascino trasparire un ritardo a fare i conti con i compiti a cui è chiamata. Basti solo pensare all’approssimazione con cui il Carroccio s’è posizionato in materia di politica estera, senza alcuna attenzione, ieri come oggi, agli obblighi che riguardano l’Italia per il solo fatto di essere membro di alleanze internazionali, uno dei Paesi fondatori dell’Europa, nonché il territorio geograficamente e politicamente più vicino allo Stato del Vaticano;
o a come ha affrontato la crisi dei Paesi del Nord Africa; all’iniziale rifiuto della missione in Libia; al palese disagio di fronte alla ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Per non dire, appunto, della sofferenza con cui collabora alla gestione del nodo dell’immigrazione clandestina, specie adesso che si propone, giorno dopo giorno, in dimensioni nuove e più serie da affrontare.

Il fatto che Maroni sia nel governo collocato in prima linea sulla frontiera degli sbarchi aggrava il travaglio del Carroccio.
Qualche giorno fa, per dire, la Lega con un manifesto se l’è presa con il questore e il prefetto di Padova (una delle sue roccheforti), che volevano inserire il territorio della città tra quelli designati per la prima accoglienza della nuova ondata di immigrati. Peccato che la richiesta provenisse dal Viminale e fosse stata condivisa dal ministro dell’Interno.

Maroni in questi giorni incarna - e in qualche modo cavalca - la contraddizione dell’essere il Carroccio un partito di lotta e di governo, definizione che Berlinguer usava nella Prima Repubblica per il Pci: che però al governo non era mai arrivato e poteva consentirsi un maggior tasso di ambiguità, lasciando credere ai propri elettori che i molti compromessi, fino a quello «storico», con la Dc, non intaccavano minimamente la natura di opposizione dei comunisti italiani e la loro «diversità» dai partiti al potere.

Anche se il paragone è volutamente sproporzionato, per la Lega tutto ciò è più difficile. Ecco perché in questi giorni, mentre Maroni andava e veniva dall’Africa, alla ricerca dell’accordo con la Tunisia sul pattugliamento delle coste, salta fuori Bossi che cerca di cavarsela con il suo «Fora di ball!» rivolto agli immigrati. Ed ecco perché il presidente del consiglio regionale della Lombardia Davide Boni si lascia scappare che per la Lega, piuttosto che andare avanti così, sarebbe più conveniente una crisi di governo sull’immigrazione. Ecco ancora perché i fautori della linea dura come Calderoli, Castelli, Borghezio, pian piano si sono defilati dagli studi televisivi e mandano a parlare la seconda fila leghista, che affronta le telecamere con la fronte imperlata di sudore.

È per questo motivo che invece di continuare a processare la Lega, forse occorrerebbe capovolgere il ragionamento e provare a soppesare tutti gli indispensabili bocconi amari che ha dovuto ingoiare negli ultimi tempi, per coerenza con la sua collocazione al governo e con il ruolo nazionale che ha dovuto assumersi. L’elenco è recente e si può fare a memoria, tralasciando l’appoggio, duro da digerire per molti militanti - e confermato anche ieri nell’aula della Camera che ha dato il via al conflitto di attribuzione con i giudici di Milano sul caso Ruby -, alle strategie politico-giudiziarie del Cavaliere alle prese con i suoi processi.

Si parte proprio dal «Fora d’i ball» bossiano rimasto senza conseguenze, e contraddetto, anzi, non più tardi di lunedì, dall’accettazione dei permessi provvisori per gli immigrati evacuati da Lampedusa, voluti da Berlusconi. Nell’ordine, la Lega ha dovuto rimangiarsi tutti i punti su cui aveva cercato di distinguersi: il piano di un migrante ogni mille abitanti costruito apposta per evitare di portare al Nord, già saturo di regolari, nuovi clandestini;
la missione in Libia che ha dovuto votare in Parlamento; la salvaguardia per le regioni del Nord da ulteriori insediamenti. E prima ancora, anche se non direttamente connesse alla situazione attuale, le celebrazioni per i centocinquanta anni del 1861, alle quali, obtorto collo, i leghisti hanno dovuto partecipare con i loro rappresentanti istituzionali, e contro le quali, quando qualcuno, come il governatore Cota, ha provato a schierarsi, ha dovuto prendere atto a suon di fischi di essere in minoranza.

Resta il dissenso di fondo con Berlusconi, che nella sua smania di accomodamento, in uno dei primi vertici dedicati all’emergenza, ha fatto letteralmente alzare dalla sedia Bossi, proponendo di suddividere i nuovi arrivati uno per ciascuno degli oltre ottomila comuni italiani. Un passo dopo l’altro, magari senza rinunciarci pubblicamente, la Lega dovrà prendere atto che anche l’obiettivo sbandierato dei rimpatri, accordo o non accordo con la Tunisia, si rivelerà assai arduo da mettere in pratica, vista la portata crescente dell’emergenza. Rimane poi la delusione per un’Europa sorda al grido di dolore del governo e del ministro dell’Interno italiani, che sembra quasi volersi prendere la rivincita della lunga predicazione euroscettica, quando non apertamente xenofoba, stile Haider o Pim Fortuyn, praticata dalla Lega delle origini. Infine,
chissà cosa accadrà alla fine della legislatura quando il vaso di Pandora del federalismo svelerà la sua vera natura: e si scoprirà che i soldi del Nord non resteranno al Nord com’era stato promesso. Anche per questo, invece di processare la Lega nella sua primavera più difficile, è molto meglio incalzarla sulla strada del cambiamento.

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

E SE PROVASSIMO NOI ITALIANI ONESTI E TUTT'ALTRO CHE EGOISTI A DIRE ALLA LEGA: «Fora d’i ball» ?