venerdì 13 maggio 2011

Fino alla condanna nessuno è colpevole


CARLO FADERICO GROSSO

Il pacchetto sicurezza varato dal governo Berlusconi tra il 2008 e il 2009 ha perso un altro pezzo. La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima un’altra norma del «pacchetto».

Si tratta della norma che aveva stabilito che la misura cautelare applicabile a chi è attinto da gravi indizi di colpevolezza per il reato di omicidio volontario può esser soltanto il carcere e non un’eventuale misura alternativa come gli arresti domiciliari.

Apparentemente la decisione può stupire. In realtà essa è invece coerente con quanto i giuristi ritengono, comunemente, con riferimento ai provvedimenti giudiziari di natura cautelare.

Si sta discutendo di decisioni assunte nei confronti di indiziati o di imputati di omicidio, non nei confronti di condannati. Si sta discutendo, per altro verso, di provvedimenti di natura cautelare, che possono, cioè, essere assunti dal giudice quando risulti necessario prevenire eventi quali la
fuga, l’inquinamento delle prove, la reiterazione del reato; non di sanzioni penali applicate a chi è stato riconosciuto colpevole da una sentenza definitiva di condanna. Ed allora, non possono che valere le regole unanimemente riconosciute nei confronti dei provvedimenti cautelari.

La libertà personale è diritto inviolabile di ciascuna persona; la presunzione di non colpevolezza costituisce, a sua volta, diritto fondamentale di garanzia riconosciuto dalla Costituzione. Evitare che coloro nei confronti dei quali esistono pesanti indizi di colpevolezza per reati gravi si diano alla fuga, inquinino le prove, ripetano i reati, costituisce a sua volta esigenza riconosciuta di difesa sociale. Trattandosi di restrizioni della libertà realizzate nei confronti di persone che devono essere considerate presuntivamente non colpevoli, e la cui responsabilità non è stata ancora giudizialmente accertata, nell’irrogazione e nella selezione dei relativi provvedimenti il legislatore ha tuttavia previsto il principio di «proporzione e ragionevolezza». Occorre, in altre parole, che si adotti la misura cautelare idonea a prevenire la fuga, l’inquinamento o la reiterazione criminosa, che sia comunque la meno invasiva possibile della libertà del presunto innocente: se è necessario il carcere, si adotti il carcere, se è sufficiente la restrizione domiciliare, si adotti tale restrizione, se è sufficiente qualcosa di ancor meno invasivo (ad esempio, un semplice controllo di polizia), si adotti tale ultima misura.

Se questi sono i principi, la decisione della Corte Costituzionale appare ineccepibile. Vietare al giudice di considerare elementi specifici relativi ai singoli casi concreti per disporre la misura cautelare restrittiva della libertà idonea alle necessità di prevenzione, che sia tuttavia la meno lesiva possibile della libertà personale, viola sia la norma costituzionale che riconosce il diritto di libertà, sia quella che prevede che nessuno può essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva, e la cui libertà personale sino a tale condanna non può essere, pertanto, di regola ristretta.

Vi possono essere, certo, reati la cui pericolosità sociale è, ictu oculi, talmente forte da giustificare una sorta di «presunzione assoluta» di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. In questa prospettiva sia la Consulta sia la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ritenuto giustificabile tale presunzione nei confronti dei delitti di mafia, stante l’oggettiva e intrinseca pericolosità della criminalità organizzata e la necessità di troncare, con riferimento a tale tipo di realtà criminosa, ogni possibile rapporto fra l’indiziato e il sodalizio.

Il delitto di omicidio, seppure oggettivamente grave, non giustifica analoga presunzione. Come ha scritto esattamente la Corte, «tale reato può ben essere, e sovente è, un fatto meramente individuale, che trova la sua matrice in pulsioni occasionali o passionali». Di conseguenza, in un numero elevato di casi le esigenze cautelari sono suscettive di trovare idonea risposta anche in misure diverse da quella carceraria. In questa prospettiva si può pertanto sicuramente ritenere, come ha ritenuto la Corte, che trattare sotto una comune etichetta di «presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria» sia i delitti di mafia sia l’omicidio, come ha fatto il pacchetto sicurezza, significhi realizzare una ingiustificata parificazione di fatti del tutto diversi, in spregio del principio di uguaglianza stabilito dall’art. 3 Cost.

D’altronde, se non esistono esigenze cautelari, anche con riferimento a reati gravissimi gli imputati affrontano, di regola, il processo senza alcuna restrizione della libertà (per rendersene conto, è sufficiente pensare ai più noti processi per omicidio, quali
Cogne, Garlasco, Stroppiana). Ed è assolutamente giusto, perché, al di fuori delle necessità di cautela, la restrizione della libertà personale può intervenire soltanto quando, con la pronuncia di una sentenza definitiva di condanna, è caduta ogni presunzione di non colpevolezza e chi ha sbagliato deve esser chiamato a pagare le sue colpe.

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