lunedì 2 maggio 2011

La guerra può durare mesi


di Gianluca Di Feo

Le vittorie dei ribelli non devono creare illusioni: anzi, cresce il rischio che finisca come in Somalia

(28 marzo 2011)

In una delle scene più surreali e drammatiche di "Apocalypse Now", il protagonista sbarca in un fortino dove tutti sparano a volontà nel buio. Il capitano interpretato da Martin Sheen gira tra le postazioni chiedendo: "Chi comanda qui?". Ma nessuno lo sa. E alla fine un soldato gli risponde: "Credevamo che fosse lei a comandarci...". Questa l'immagine che un alto ufficiale italiano evoca per descrivere l'operazione libica: un'offensiva dove non si capisce chi sia al comando. Una guerra del genere non si era mai vista. Non si sa chi la diriga, quali siano gli obiettivi che vuole raggiungere e soprattutto cosa accadrà dopo i raid dal cielo. Finora gli analisti hanno una sola certezza: le truppe di Gheddafi hanno dimostrato di sapere combattere con determinazione mentre i ribelli agiscono come un'armata Brancaleone, incapace di azioni organizzate. Basteranno i missili americani e le bombe francesi a capovolgere la situazione?

Nei quartieri generali della coalizione domina lo scetticismo. I primi giorni di incursioni hanno alimentato un malcontento tra i vertici delle forze armate, che lamentano di essere stati mandati all'attacco senza indicazioni chiare sulle finalità della campagna: proteggere i civili o abbattere Gheddafi? Da Washington a Londra, da Madrid a Roma i generali sussurrano le stesse perplessità: qual è lo scopo della missione? Quanto a lungo durerà? E soprattutto, che futuro si ipotizza per la Libia? Dopo circa 180 cruise sparati contro le centrali di comunicazione e i bunker del Colonnello, con quasi cento caccia che ogni giorno mirano sulle truppe governative intorno alle città ribelli delle regioni orientali, lo scenario bellico sembra quantomai confuso. "Il concetto di no fly zone, ossia di interventi per impedire i voli dei jet di Tripoli, è stato superato da tempo. E la decisione francese di fare fuoco sui mezzi corazzati che assediavano Bengasi ha spiazzato la coalizione, obbligando gli altri Paesi a rincorrere l'iniziativa di Parigi", commenta il generale Leonardo Tricarico, ex comandante dell'Aeronautica che oggi dirige la Fondazione Icsa. Nel 1999, ai tempi del governo D'Alema, Tricarico ha coordinato l'intera campagna aerea della Nato contro la Serbia, e poi è stato consigliere del premier Berlusconi: ha esperienza operativa e riferimenti politici bipartisan, ma non ricorda un'operazione così azzardata. "Il problema più immediato sarà la scelta dei prossimi bersagli. Ai tempi del Kosovo gli obiettivi erano designati in base alle indicazioni politiche e bisognava destreggiarsi tra i veti delle singole nazioni. Ricordo le sfuriate del generale americano Short per i divieti di Parigi, che bloccavano anche aerei già decollati". Oggi il Pentagono ha già detto con chiarezza che la prima fase dei raid - quella per eliminare radar e contraerea - è praticamente conclusa. La zona proibita agli stormi di Gheddafi presto si allargherà a tutta la costa, "occupando" quasi mille chilometri di cielo. Ma gli americani non vogliono avere la responsabilità su quello che accadrà dopo: non vedono l'ora di passare a qualcun altro il bastone del comando. Né l'Italia intende fornire basi e velivoli per una campagna decisa altrove.

E allora? Tutti invocano la Nato. "Sono convinto che il comando atlantico si stia preparando da giorni per assumere la regia delle attività. A Poggio Renatico, nel Ferrarese, c'è una base pronta a gestire i raid. Il problema è che molti degli Stati membri, come Turchia e Germania, non vogliono essere coinvolti. La soluzione sembra essere un adattamento degli accordi che prevedono l'uso delle strutture Nato per azioni decise dall'Unione europea: come una sorta di service tecnico che manovra i reparti per conto terzi". Una guerra in subappalto. Che richiede l'invenzione di un comitato politico dei membri della coalizione, destinato a trasmettere le indicazioni concordate dai governi allo staff Nato incaricato di pianificare gli attacchi. Un direttorio che potrebbe essere dominato dall'asse franco-britannico, finora protagonista della crisi. Oggi sulla nave ammiraglia Mount Whitney le decisioni chiave vengono prese da tre ufficiali: il grande capo statunitense e due vice, scelti da Londra e Parigi. Tricarico ritiene che un ruolo dell'Organizzazione atlantica offra comunque le maggiori garanzie contro "colpi di mano" delle nazioni dal grilletto facile: "Ricordo il rigore che c'era nel 1999 nella selezione dei raid per evitare danni ai civili. Anche a costo di rimanere senza obiettivi e proseguire la campagna mandando per tre volte i caccia sullo stesso bersaglio già bombardato pur di non correre il pericolo di colpire la popolazione".
La questione dei civili rischia di diventare dominante nelle prossime ore. Gheddafi sta posizionando i mezzi migliori, a partire dalle batterie terra-aria, nei centri abitati: nasconde blindati e cannoni nei condomini. Se nel tentativo di neutralizzare queste armi anche un solo missile esplodesse tra le case, allora verrebbe vanificato lo spirito del mandato Onu di difesa della popolazione. E' in nome dello scudo per i civili che sono state legittimate le incursioni francesi contro i carri armati governativi che puntavano su Bengasi. Con un altro dilemma: se i tank dei rivoltosi attaccheranno le città in mano ai fedeli di Gheddafi, come si dovrà comportare la coalizione? Applicherà le stesse regole e li spazzerà via? "Valuteremo la situazione", ha risposto il generale americano Carter Ham, che ha pianificato la prima fase della campagna e aspetta solo di girare a qualcun altro la responsabilità di guidare una guerra senza strategia.

Bombe o non bombe, sul terreno finora è Gheddafi a mantenere l'iniziativa. Gli aerei occidentali non possono controllare un Paese sterminato come la Libia. E se le colonne corazzate del raìs si schiereranno sulla difensiva intorno ai centri della Tripolitania verrà a cadere anche la motivazione umanitaria dei bombardamenti. Lo scenario è da incubo: una sorta di gigantesca Somalia, con bande tribali che si combattono, dove quella del Colonnello è la tribù meglio armata e organizzata. Difficilmente i "consiglieri" egiziani e inglesi segnalati a Bengasi potranno trasformare le milizie ribelli in unità capaci di espugnare città ben difese. E gli americani diffidano di quei partigiani, temendo una crescente presenza di fondamentalisti islamici: sanno che il maggior numero di terroristi qaedisti catturati nell'ultima fase della guerriglia in Iraq veniva proprio dai territori della Cirenaica dove è divampata la rivolta. Più durerà il conflitto, più la rete oltranzista potrà infiltrarsi tra i nemici del Colonnello.

Insomma, nessuno riesce a prevedere una exit strategy da quella che appare come una trappola di sabbia. Dove bisognerà fare i conti anche con la follia di Gheddafi, il più radicale dei leader arabi capace di mosse avventate. Ci sono ipotesi disperate che tutti i comandi occidentali preferiscono esorcizzare: dai sequestri di cittadini occidentali all'uso di armi chimiche. O iniziative ancora più apocalittiche, imitando quello che Saddam Hussein fece nel 1991: la distruzione dei pozzi di petrolio e delle installazioni che pompano il gas verso l'Europa. L'unico modo di impedirlo è intervenire direttamente: far sbarcare le truppe e occupare i giacimenti. Con la prospettiva di rimanere poi per anni a fare la guardia al barile.

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