di Michele Ainis
Continuano a chiamarla missione umanitaria, per aggirare
(02 maggio 2011)
E' lecito avanzare un dubbio, una riserva, un'opinione dissenziente sulla nostra guerra in Libia? Anzi: è lecito definirla guerra? Perché ad ascoltare le voci che risuonano dentro le stanze del palazzo, neanche la decisione di premere il grilletto avrebbe cambiato la natura del nostro intervento. che è militare, sì, ma pur sempre «umanitario ». Contro Gheddafi, ma non contro
Il governo ha immediatamente dichiarato che i bombardamenti dei tornado tricolori sono in realtà «missioni con missili di precisione su obiettivi specifici». insomma se la bomba colpisce il suo bersaglio diventa una missione, altrimenti è un bombardamento. Ma per fortuna noi abbiamo soltanto bombe (pardon, missioni) intelligenti, come i nostri governanti.
E' questa guerra di parole che sta divampando da oltre un mese dentro i confini nazionali. L'altra, quella che riempie gli ospedali e i cimiteri, si consuma sull'altra sponda del Mediterraneo. Lontano, ma poi neppure troppo. E allora diciamolo, anche a costo di finire al muro come traditori della Patria: è una guerra illegale. La prima, ma soprattutto la seconda. E il fatto che non sia mai stata dichiarata, il fatto che di giorno in giorno risucchi i nostri eserciti come un buco nero, non la trasforma in una guerra legale.
Avevamo cominciato in punta di piedi, o meglio di scarponi. Offrendo le basi militari agli alleati, e spergiurando che quella era la soglia massima, dopotutto l'ex potenza coloniale in Libia non avrebbe potuto concedere di più. Poi abbiamo inviato istruttori militari. Poi abbiamo fatto alzare i nostri aerei in volo, per accecare con qualche diavoleria elettronica i radar di Gheddafi. Poi abbiamo ordinato agli aerei di sparare. E sempre con lo schermo della risoluzione 1973 dell'Onu, sempre sull'onda dei voti espressi dal Parlamento a metà marzo. Una prosecuzione logica del nostro impegno, della nostra primitiva scelta in favore della libertà dei popoli: ecco la trincea argomentativa del governo. Con questa logica, se domani sganciassimo un'atomica su Tripoli, nessuno avrebbe il diritto d'eccepire. Ma non c'è logica nella guerra che l'Occidente sferra contro il tiranno Gheddafi, lasciando indisturbato il tiranno Assad.
Quanto all'Italia, non c'è neppure logica giuridica. Per due ragioni: l'una formale, l'altra sostanziale. In primo luogo, si dà il caso che l'art. 78 della Carta pretenderebbe che ogni guerra venga deliberata dalle Camere. Non dal Consiglio supremo di difesa, che sempre a metà marzo aveva approvato un atto d'indirizzo. Non dal Parlamento in forme generiche e allusive, com'è fin qui avvenuto. Serve una decisione univoca, circostanziata, meditata. E va espressa nell'unico luogo istituzionale in cui le opposizioni hanno un posto in tavola. In questo caso, viceversa, neanche uno straccio di delibera del Consiglio dei ministri. La licenza d'uccidere, come per l'agente
Sta tutta qui la differenza tra l'Italia e
michele.ainis@uniroma3.it
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