lunedì 16 maggio 2011

Obama ora è ostaggio del "conflitto irrisolto"


VITTORIO EMANUELE PARSI

Assumono quest'anno un significato particolare i sanguinosi disordini che accompagnano la ricorrenza della Naqba, la giornata in cui i palestinesi ricordano la nascita dello Stato di Israele e l'inizio della catastrofe per il loro popolo. Ci rammentano infatti che, mentre per la prima volta da molti decenni il mondo arabo è attraversato da inedite spinte al cambiamento, il Medio Oriente continua a restare ostaggio del suo grande, irrisolto conflitto. Il nuovo atteso discorso del Presidente ai popoli arabi, dopo quello del Cairo di quasi due anni orsono, arriverà a pochi giorni dal siluramento di George Mitchell da parte di Obama e non potrebbe cadere in un momento più delicato.

Nei mesi scorsi l'amministrazione statunitense aveva dovuto riguadagnare terreno dopo aver fornito l'impressione non tanto di essersi fatta cogliere di sorpresa dalla «grande rivolta araba del 2011», quanto soprattutto di aver faticato oltre misura ad articolare una reazione adeguata, dimostrando oltre a una comprensibile difficoltà in termini di previsione una meno giustificabile mancanza di visione riguardo a un'area del mondo dove gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti dalla fine della Guerra Fredda.

L’eliminazione di
Osama bin Laden, un innegabile importante successo, era tornata a fornire l’immagine di una Casa Bianca nuovamente all'offensiva, capace di assumere l'iniziativa e di produrre fatti importanti in grado di bilanciare sia la sensazione di stallo nelle operazioni militari in Libia (dove peraltro l'America ha assunto una posizione defilata), sia la preoccupazione per la piega che gli eventi sembrano prendere in Egitto, dove i Fratelli Musulmani stanno lentamente ma costantemente riguadagnando il centro della scena politica, con la benevola neutralità delle forze armate, mentre l’infittirsi e il ripetersi di gravi episodi di violenza contro la minoranza copta getta ombre inquietanti sulla possibile evoluzione futura della rivoluzione.

Il discorso del Presidente avrebbe dovuto cercare di fornire una risposta coerente alle sfide poste da un regime ostile che non si riesce a ribaltare neppure con la forza militare e di uno alleato che appare sempre meno condizionabile, nonostante l'enorme messe di aiuti economici che riceve da Washington. Ma dopo quello che è successo ieri in Israele e ai confini con Siria e Libano, esso non potrà eludere l'eterna questione israelo-palestinese, cioè il tema peggiore, il più intrattabile per qualunque Presidente americano e per Obama in particolare. Che le autorità di Tel Aviv siano in grande difficoltà rispetto agli avvenimenti di questi mesi è testimoniato dai toni aspri impiegati nei confronti dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) per la «pace» stipulata con Hamas e dalla timidezza mostrata verso il regime di Damasco.

Determinatissima, invece, è stata la reazione delle truppe israeliane ai tentativi di violazione della linea di demarcazione tra lo Stato ebraico e il Libano e la Siria da parte di qualche migliaio di palestinesi. Impossibile che simili manifestazioni abbiano avuto luogo senza l’attivo «incoraggiamento» delle autorità siriane e delle milizie di Hezbollah (per quanto riguarda il Libano). Da molte settimane, il regime di
Bashar Al Assad è in grave difficoltà per un'ondata di protesta che non accenna a scemare nonostante l'estrema brutalità della repressione, e non è irrealistico ritenere che il soffiare sul fuoco della tensione nel giorno della Naqba sia stata un' opportunità troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, allo scopo di tornare a posizionare la Siria come il «primo Paese sulla linea del fronte antisionista» e non come la brutale dittatura che pure è.

Evidentemente anche l’Iran non può che essere interessato a vedere tornare in primo piano la «tradizionale» chiave di lettura del Medio Oriente (il conflitto arabo-israeliano) rispetto a quella «nuova» di questi mesi (la domanda di libertà). Ma un ritorno al consueto potrebbe non dispiacere neppure al governo di Tel Aviv, preoccupato che il tentativo dell’amministrazione statunitense di riguadagnare consenso nel mondo arabo possa implicare ulteriori pressioni americane a favore di concessioni che Israele ritiene impossibili.

Di tutte queste variabili Obama dovrà tener conto nel confezionare il suo discorso, attento anche a non cadere nel cliché di cui molti dei suoi critici lo accusano: di essere sìcuramente un Presidente che «ascolta prima di parlare», ma soprattutto un Presidente che «parla invece di agire».

Nessun commento: