sabato 14 maggio 2011

Quirinale, la supplenza necessaria


Da quando nel 1992 entrò in crisi il sistema politico che aveva tenuto a battesimo la Repubblica nessun potere dell'ordinamento costituzionale italiano ha subito, sotto un'apparenza di immutabilità, modifiche sostanziali così profonde come il potere del presidente della Repubblica. Le sue prerogative - fino a non molti anni fa in prevalenza notarili o di relativamente innocua esternazione - sono divenute fonte sempre di più di decisioni risolutive. Ecco perché da tempo chi esercita quella carica è fatto oggetto, praticamente ogni giorno, di appelli, critiche, polemiche, da parte di tutte le forze politiche. Non è questione della nota scostumatezza costituzionale di Berlusconi o della sua altrettanto nota aggressività verbale; così come, dall'altra parte, non è questione della spregiudicatezza manipolativa di Di Pietro o chi altri. La questione vera è che il presidente della Repubblica è ormai diventato il dominus effettivo della scena politica del Paese. E come potrebbe mai, dunque, in tale condizione apparire sempre super partes nella discussione pubblica?

Le cause di questa trasformazione di fatto sono parecchie, ma due mi sembrano quelle essenziali. La prima consiste nella quantità e nella varietà delle prerogative e dei poteri che la Costituzione conferisce al presidente. Prerogative e poteri numerosi, vari, che spaziano in ambiti molteplici, ma soprattutto - ciò che per la loro evoluzione è stato decisivo - necessariamente indeterminati, suscettibili cioè, per loro natura, di un esercizio esclusivamente formale o viceversa sostanziale, a seconda delle circostanze e della situazione politica. Si pensi solo all'autorizzazione per la presentazione alle Camere dei disegni di legge d'iniziativa del governo, alla promulgazione delle leggi o all'emanazione dei decreti legge, cioè a tutta l'attività legislativa dell'esecutivo: autorizzazione che - lungo una scala da un minimo a un massimo - può essere intesa vuoi come un atto dovuto, puramente estrinseco, o viceversa dare luogo di fatto a un vero e proprio intervento attivo nella formulazione dei provvedimenti legislativi. Si aggiunga, a sanzionare significativamente il rilievo della carica del presidente, e a conferirgli un alto potenziale politico, la sua durata - sette anni, e reiterabili, vale a dire un tempo assai superiore a quello di qualsiasi altra carica dello Stato - peraltro non sottoponibile a nessuna «sfiducia», salvo il caso estremo di messa in stato d'accusa davanti alle Camere.

Alla fine, dunque, tutto dipende ineluttabilmente dalle circostanze. È stato il progressivo indebolimento degli antichi partiti e del loro sistema già negli anni 80 e nei primissimi 90, con Pertini e Cossiga, che ha creato sempre più un vuoto. Molti vuoti. Ed è allora, per riempire questi vuoti di diversa natura, che è iniziata a mutare anche la valenza politico-costituzionale della presidenza della Repubblica, grazie inizialmente all'uso dello strumento, in realtà per nulla secondario, delle «esternazioni». Poi fino ad oggi si è verificata una serie di accelerazioni repentine.

Un bipolarismo approssimativo e senza regole, causa di continui scontri muro contro muro; la presenza per la prima volta nella storia della Repubblica di governi di destra privi però di adeguata rappresentanza nelle élite tradizionali; l'affollarsi di formazioni politiche nuove e spesso aleatorie; coalizioni mutevoli; una classe politica incolta e in molta parte inesperta: tutto ciò ha finito per inasprire il clima generale e per rendere sempre più cruciali temi che prima non lo erano o non lo erano nella stessa misura. A cominciare dallo scioglimento delle Camere, per finire all'esatta definizione dei poteri del presidente del Consiglio, specie in rapporto agli altri organi e poteri dello Stato. E dunque è andata crescendo di pari passo la centralità del presidente della Repubblica, sempre più chiamato a esercitare i suoi poteri di arbitraggio e di decisione, e inevitabilmente sempre più oggetto di consensi e di dissensi.

È difficile negare che Giorgio Napolitano stia svolgendo con avvedutezza ed equanimità la parte che la storia gli ha assegnato. Una parte non facile, condannato per forza, come egli è, a essere considerato troppo neutrale e insieme troppo poco: troppo da una sinistra che per avere egli un tempo militato nelle sue file lo vorrebbe più simile a sé, e troppo poco neutrale da una destra che lo sente troppo diverso da sé. Che il suo tentativo di non stare per principio da nessuna parte stia avendo successo è però testimoniato dalla sua nuova, indubbia popolarità, frutto precisamente del fatto che settori crescenti dell'opinione pubblica, stanchi e sfiduciati, s'identificano per l'appunto con quel suo stare, o sforzarsi di stare, «da nessuna parte». Così come lo testimonia, se non m'inganno, pure il fenomeno anch'esso nuovo del sentimento patriottico diffusosi recentemente in vasti settori del Paese.

Il patriottismo, infatti, ha un forte bisogno di una figura simbolica di riferimento, la quale, come è ovvio, non rappresenti però «una parte» bensì un «tutto»; e quanto più la trova tanto più esso è in grado di svilupparsi. In Giorgio Napolitano, evidentemente, quella figura di riferimento il nuovo patriottismo italiano sente di averla trovata. Così come, dall'altra parte, la presidenza della Repubblica, già con Ciampi e poi adesso ancora di più con Napolitano, ha cominciato a trovare nel patriottismo la sua propria ideologia di riferimento. E anche questa non è certo una novità dappoco.

Ernesto Galli Della Loggia
13 maggio 2011

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

RIFLESSIONI TOTALMENTE CONDIVISIBILI.