domenica 1 maggio 2011

VA IN SCENA IL B. AFTER DI TRAVAGLIO



Con l’interpretazione di Isabella Ferrari che dà voce a Montanelli, il racconto di un dopo-Silvio postatomico in un Paese in“anestesia totale”

di Nanni Delbecchi

Scrivere di Anestesia totale, lo spettacolo di Marco Travaglio andato in scena in prima nazionale venerdì al Teatro delle Celebrazioni di Bologna, sul giornale di cui Marco Travaglio è il vicedirettore, potrebbe sembrare complicato. Invece, con una certa sorpresa, ci accorgiamo che è semplice, perché quello di Travaglio è un teatro che chiede di essere semplicemente raccontato, al di là di qualsiasi giudizio. Un flusso di coscienza che si nutre di nomi, date, numeri, citazioni, sentenze, circostanze. Insomma, di fatti precisi. L’importante è togliere il bavaglio ai fatti e ascoltarli insieme, attraverso la condivisione che può dare solo il palcoscenico. L’inizio è da day after, anzi, da B. after. Siamo in un doposilvio postatomico, lui non c’è più ma dopo 17 anni il nocciolo della democrazia è fuso, “le radiazioni continuano e ci sono tante scorie non riciclabili”. Rispetto a Promemoria, che era fatto di un leggio e di una panchina (in tre ore bisognerà pur sedersi ogni tanto), il solo elemento in più voluto dalla regista Stefania De Santis è un’edicola dechirichiana, dove sventola una immobile bandierina tricolore, e dove siede Valentino Corvino, giornalaio, violinista e dj.

Il risveglio dall’anestesia procede per gradi, attraverso l’enumerazione di ciò che ha fatto piombare l’Italia nel coma farmacologico; e la prima sparizione, naturalmente, è quella dei fatti. Sul palco arriva Isabella Ferrari, seconda voce recitante, e comincia un ping-pong sul ritornello “C’è chi nasconde i fatti”, nello stile “Vado via-Resto qui” brevettato da Fazio e Saviano. “C’è chi nasconde i fatti perché si crede equidistante e invece è equivicino; c’è chi nasconde i fatti perché il Parlamento è diventato una comunità di recupero; c’è chi nasconde i fatti per non far sentire solo Giuliano Ferrara; c’è chi nasconde i fatti a se stesso perché se no gli tocca cambiare idea; c’è chi nasconde i fatti perché i padroni dei giornali sono una banda troppo larga…”. I 15 padroni del patto di sindacato che controlla il Corriere della Sera vengono enumerati uno per uno, ecco una lista che nemmeno Umberto Eco aveva mai stilato.

MA STAVOLTA Travaglio ha voluto avere a fianco anche il suo maestro, scomparso anche lui dieci anni fa. La voce registrata di Indro Montanelli all’improvviso echeggia dal buio, Isabella Ferrari guadagna il leggio, è a lei che tocca il compito più arduo, ma la ragazza è tosta, e le parole di Indro risultano ancora più autentiche affidate alla voce di un’attrice, che, in questo caso, ha rinunciato a essere solo un’attrice. Comincia a scandire l’editoriale apparso sulla Voce nel dicembre 1994, all’indomani della caduta del primo governo Berlusconi, intitolato “Finalmente”. “Finalmente, dopo esserci occupati esclusivamente di lui, potremo ricominciare a occuparci di politica”, scrive Montanelli. Fu una delle rare volte in cui volle essere ottimista e una delle rare volte in cui si sbagliò. Poco dopo, la Ferrari legge anche l’ultimo editoriale apparso sul Giornale l’11 gennaio del 1994: “Non avevo scelta: o diventare il megafono di Berlusconi, o andarmene”. Ci sono uomini che pagherebbero per vendersi, dice Travaglio citando Victor Hugo; Montanelli preferì pagare pur di restare libero, anche se sapeva benissimo che in un paese come l’Italia questo significa condannarsi alla solitudine. Da questo destino di solitudine, Anestesia totale svolta verso la satira confermandosi una pièce non su Berlusconi, ma sul berlusconismo, ossia su come un potere così enorme abbia potuto produrre servi così piccoli, ma proprio per questo a loro modo strepitosi. Alla scomparsa dei fatti seguono a ruota quelle delle notizie, del metro di giudizio, delle parole, della logica e della verità; le bugie hanno le gambe lunghe, diceva Eduardo, e sono addirittura dei millepiedi se si possiede il controllo delle reti nazionali in un paese in cui il 70 per cento della popolazione si informa solo attraverso la televisione.

COMINCIA la rassegna del bestiario passatoci davanti agli occhi in questi 17 anni di “golpe al rallentatore”, e Travaglio spara a raffica il suo umorismo dagli occhi di ghiaccio, più pallido e più serio di Buster Keaton, dove anche le freddure sono la prosecuzione dei fatti con altri mezzi. Bruno Vespa (“Il giorno dell’arresto di Previti Porta a Porta parla della dieta mediterranea”), Augusto Minzolini (“Giornalista indipendente. Dalle notizie”), Johnny Riotta (“Pronunciare Raiotta, perché lui si crede americano”), Marcello Dell’Utri e il suo eroico stalliere (“Un tempo il silenzio si chiamava omertà, lui lo chiama eroismo”), Guido Bertolaso (“Volete che uno del mio livello si faccia corrompere per 50 mila euro?”), Giuliano Ferrara (“Prima vuole contare gli embrioni negli uteri delle donne, poi appende le mutande in piazza”), Maurizio Gasparri (“Bisogna limitare le intercettazioni, altrimenti prendere i criminali è troppo comodo”), Emilio Colombo (“Prendevo cocaina, è vero, ma a scopo terapeutico”). E in un paese in cui la realtà supera l’immaginazione, ma il giornalismo supera tutte e due, ecco il giornalista-Pompiere, l’Annusatore (“Che buon odore di santità!”), il Paraninfo, la Spia e il Dadaista (“La lebbra sbarca in Sicilia”, firmato Feltri-Breton). Una bella gara; ma il vero mattatore, quello per cui il teatro scoppia a ridere solo a sentirne pronunciare il nome, è Claudio Scajola. Irresistibile anche a insaputa delle battute. Chiusa con testacoda: prima le poesie di Sandro Bondi, poi l’ultimo fondo di Montanelli sull’Italia di B. “Il risultato è scontato: il sudario di conformismo e di menzogne che, senza bisogno di leggi speciali, calerà su questo Paese riducendolo sempre più a una telenovela di borgatari”. Si replica fino a oggi a Bologna, poi a Genova (dal 4 al 7 maggio), a Torino (11-14 maggio) e Milano (17-22 maggio). Nei camerini, un signore con il berretto di lana non smette di ringraziare Travaglio per quanto è stato capace di emozionarlo, e quando finalmente si volta vediamo che è Lucio Dalla. Ma nemmeno questo vuole essere un giudizio; nient’altro che un fatto.

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