martedì 5 luglio 2011

Bavetta Beccaris

di Marco Travaglio

Paragonare il ministrucolo degli Interni Bobo Maroni, già avvocato della Avon di Varese, al generale Fiorenzo Bava Beccaris suona ridicolo, e anche un po’ offensivo per la memoria del generale.

La storia, diceva Marx, si ripete spesso, ma in forma di farsa. Infatti oggi siamo ai Maroni. Col contorno dei politici e giornalisti servi che fanno da degno sottofondo.

Per un intero giorno ci han raccontato che Beppe Grillo aveva definito “eroi” i black bloc, qualcuno l’ha chiamato addirittura “cattivo maestro”, poi s’è scoperto che Grillo parlava dei valligiani pacifici con cui stava parlando, ben prima che scoppiassero le violenze degli infiltrati.

Allora ci han raccontato che Grillo aveva fatto “marcia indietro”, “smentendo” o “rettificando” cose mai dette.

Così si parla del nulla (il Giornale passa al situazionismo ed evoca il ritorno delle “Brigate rosse”), pur di non confrontarsi coi dati scientifici che dimostrano l’inutilità del Tav.

Solo una caricatura di ministro può immaginare di tenere in stato d’assedio la Val di Susa per vent’anni, schierando 2 mila agenti e militari armati di tutto punto in assetto antisommossa a presidio di cantieri trasformati in fortilizi, con cavalli di frisia, filo spinato e sacchi di sabbia dappertutto, per mandare avanti un’opera che scava un buco di 60 km nella montagna e un altro di 20 miliardi in quel che resta del bilancio dello Stato.

Solo un dilettante del diritto può pensare che qualche magistrato accuserà i (pochi, per fortuna) violenti No Tav di “tentato omicidio”.

Ma la sua pretesa di sostituirsi alle Procure va compresa. Maroni è l’unico ministro dell’Interno della storia dell’umanità condannato per resistenza a pubblico ufficiale, per aver messo le mani addosso ad alcuni agenti della Digos che stavano compiendo il proprio dovere.

È il 1996 e, per conto della Procura di Verona, indagano sulla formazione paramilitare fuorilegge denominata “Guardia nazionale padana”, le celebri camicie verdi: un esercito parallelo armato, come risulta dalle intercettazioni di vari leghisti che, compreso Bossi, parlano di armi.

Il 18 settembre il procuratore Guido Papalia ordina la perquisizione del capo dell’allegra brigata, Corinto Marchini. Ma questi sostiene che il suo ufficio è nella sede della Lega, in via Bellerio a Milano. La Digos lo porta lì per la perquisizione, salvo scoprire che il presunto ufficio di Marchini è in realtà di Maroni.

Militanti, dirigenti e parlamentari leghisti si mettono di traverso per impedire il passaggio ai poliziotti, un po’ come le famiglie dei camorristi in certi quartieri di Napoli, quando le forze dell’ordine vanno ad arrestare un boss.

I nostri tutori della legalità e dell’ordine pubblico insultano gli agenti al grido di “fascisti”, “mafiosi”, “Pinochet” e malmenano tre ispettori. Maroni, secondo l’accusa, “afferrò per le gambe e trascinò a terra” due poliziotti, Bossi ne “strattonò” un terzo “strappandogli il giubbino e la giacca d’ordinanza”. Alla fine molti contusi su entrambi i fronti (oggi Maroni direbbe “poliziotti feriti dai terroristi”, solo che all’epoca il terrorista era lui). Maroni fa in tempo ad azzannare un agente al polpaccio prima di prendere una botta al setto nasale ed essere portato via in barella. Due anni dopo viene condannato in primo grado a 8 mesi per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Sentenza confermata in appello nel 2001, pena ridotta a 4 mesi e 20 giorni perché nel frattempo una legge ad Legam ha depenalizzato l’oltraggio. Condanna definitiva in Cassazione: la “resistenza passiva” dei partigiani verdi “non risultava motivata da valori etici, mentre la provocazione era esclusa dal fatto che non si era in presenza di un comportamento ingiusto a opera dei pubblici ufficiali”. E quelli di Maroni erano “inspiegabili episodi di resistenza attiva e proprio per questo del tutto ingiustificabili”.

Da allora, quando arriva il loro ministro, gli agenti corrono a indossare stivali molto alti. Inguinali.

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