giovedì 21 luglio 2011

Casta resa

di Marco Travaglio

Per quanto improbabile, visti i precedenti, il via libera all’arresto di Papa era nell’aria da quando Giuliano Ferrara aveva implorato la Lega di non autorizzare l’arresto di Papa. Da quando il Platinette Barbuto ha preso a cuore le sue sorti, è stato chiaro a tutti che il suo destino era segnato. Il bacio della morte ha colpito ancora. Se a ciò si aggiunge che, alla crociata per regalare l’impunità all’ultimo onorevole galeotto mancato, si erano uniti Sallusti, Pera e Rondolino, ben si comprende perché Papa si avvia verso Poggioreale.

Il Platinette e Zio Tibia sono un po’ i termometri all’incontrario della febbre politica: quando sposano una causa, la condannano irrimediabilmente alla disfatta.

Pare che Papa li avesse pregati di astenersi dal difenderlo, anche perché quando uno viene difeso da Ferrara e Sallusti viene automaticamente meno la presunzione di non colpevolezza: se certa gente si schiera dalla loro parte, qualcosa devono aver fatto per forza.

Papa era già malmesso di suo: le foto che ritraggono l’onorevole magistrato in compagnia di alcuni ricettatori che gli passano orologi rubati, apparivano in lieve contrasto con i suoi applausi ad Angelino Jolie che lancia il “partito degli onesti”.

Ma quelle immagini non sono nulla al confronto della faccia dei suoi difensori d’ufficio. E, peggio ancora, dei loro argomenti.

Secondo Ferrara, i parlamentari devono “farsi giudicare solo dagli elettori”. Curiosa concezione dello Stato di diritto che ci riporta un po’ più indietro del Congresso di Vienna: se uno ruba e poi si rifugia in Parlamento, o viceversa, non deve finire in carcere né in tribunale, ma chiedere agli elettori se è colpevole o innocente. Le Camere come alternativa ai penitenziari e alle comunità di recupero. Un concetto difficile da spiegare anche in Padania.

Secondo Olindo, invece, bisogna sempre dire di no agli arresti dei parlamentari, qualunque cosa abbiano fatto, perché “altrimenti consegniamo a pm spregiudicati, faziosi e in preda a deliri di protagonismo i destini del Paese e quindi i nostri”.

Il poveretto non sa neppure che i mandati di cattura non li firmano i pm, ma i giudici per le indagini preliminari.

Ciò che è accaduto ieri a Montecitorio, dunque, è l’assoluta normalità democratica (l’anomalia è la vergogna del Senato, dove decine di mascalzoni nascosti dietro l’anonimato hanno pescato nel torbido salvando Tedesco, che non riesce nemmeno a farsi arrestare quando lo chiede): il via libera a un arresto ultramotivato da prove schiaccianti.

Se tutto appare così eccezionale è perché 20 volte in 17 anni, tutte le volte in cui i giudici volevano arrestare un parlamentare, il Parlamento aveva risposto picche. Anche per personaggi come Previti, Cito, Dell’Utri, poi regolarmente condannati.

Anche col voto della Lega, che ieri improvvisamente è tornata alle origini. E non l’ha fatto per sua volontà, ma per la spinta dei suoi elettori stufi di vedere Bossi & C. tenere il sacco a Roma ladrona. Nel ’94 il Senatur disse che, “quando B. piange, c’è da stare allegri: vuol dire che non ha ancora messo le mani sulla cassaforte”. Ora B. piange, schiuma di rabbia e, dal suo punto di vista, ne ha di che: teme giustamente “un’escalation di arresti preventivi come nel ‘92”. Sa bene che, a casa sua e nelle zone limitrofe, in questi anni s’è rubato a man salva e l’ok alle manette per Papa diventa, per gli onorevoli ladri, un pericoloso precedente. Anche perché non è solo la Banda B che viene portata via pezzo per pezzo dai rastrellamenti della magistratura, ma tutta la Banda Larga dei grandi partiti.

L’inchiesta per tangenti su Filippo Penati, ennesimo dalemiano finito nei guai, scoperchia ancora una volta un malaffare trasversale, come se non bastassero i casi Pronzato, Morichini, Paganelli, Piccini. Quando B. cadrà, nessuno degli attuali papaveri si illuda di prenderne il posto. In un modo o nell’altro verranno spazzati via tutti: si spera per mano degli elettori, prima che arrivino i carabinieri.

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