lunedì 11 luglio 2011

Crisi, si tratta sul debito Obama: "Accordo in 10 giorni"

L'appuntamento non era dei più invitanti: domenica sera a discutere di deficit. Eppure i big convocati da Barack Obama ieri alla Casa Bianca potevano concedersi anche più dei 75 minuti cronometrati dai cronisti. Niente. Il presidente non ha neppure regalato alla nazione il suo pistolotto sull'accordo da trovare presto e tutti. Lo show è rinviato a questa mattina. Alle 11 di Washington, già le cinque della sera in Italia, Obama farà il punto della situazione. E poi riprenderanno le trattative tra le parti che hanno promesso - almeno - di rivedersi. Tutti i giorni in questa settimana, almeno secondo le speranze della Casa Bianca.

Ma c'è poco da illudersi.
L'accordo sul taglio da 4mila miliardi in dieci anni non si farà. Washington non sarà capace di mostrare all'America di saper fare "grandi cose": come aveva chiesto Barack e come privatamente aveva concesso anche il capo dell'opposizione John Boehner. Che invece sabato sera si è presentato al tavolo della Casa Bianca con un messaggio amaro: il partito non vuole. Al massimo si potrà tentare l'accordino: un taglio da 2mila miliardi di dollari. Che sono appena una sforbiciata rispetto ai 14mila e 300 milioni raggiunti finora dal debito Usa. Praticamente l'intero Pil.

È una corsa contro il tempo. Il compromesso per alzare il tetto del debito deve essere trovato "al massimo entro la fine della prossima settimana" dice il ministro del Tesoro Tim Geithner. È il tempo tecnico per consentire poi all'ufficio del bilancio di fare i controlli di legge e al Congresso di andare al voto entro il fatidico 2 agosto. Altrimenti per la prima volta nella storia gli Usa andranno in default. Geither parla di "momento grave". "Io devo staccare 80 milioni di assegni al mese per gli americani: compresi quei 55 milioni che vivono della Social Security" che sarebbe la pensione di stato. "Dobbiamo essere in grado di completare i pagamenti. Oppure saremo fuori di altri 500 miliardi di debiti subito in agosto. E già nella prima settimana ne avremo accumulati 87 miliardi".

Eppure i repubblicani continuano a tirare la corda. Il loro capo al Senato Mitch McConnell lo dice chiaro: "Nessuno nega che non si debba aumentare il tetto del debito". Per carità. Neppure loro vogliono assumersi la responsabilità di non far arrivare gli assegni di stato nelle tasche degli elettori. Ma proprio le elezioni alle porte sono il motivo della resistenza. Nell'accordo per 4mila miliardi di dollari - oltre comunque alle sforbiciate al welfare che fanno tremare gli stessi democratici - c'è anche l'addio agli sgravi fiscali per i ricchi: che per i repubblicani è invece soltanto un ulteriore aumento delle tasse.

Ecco perché adesso si dicono disponibili soltanto a un miniaccordo: la metà di quello che vuole Obama. Così l'anno venturo siamo punto e a capo: a ridiscutere sull'aumento del tetto. Una bella pistola elettorale puntata su Obama a caccia di rielezione. È lui il cattivone. Lui che affrontando la più grave recessione dal '29 ha portato il deficit dai 10.700 mila miliardi che aveva ereditato da George W. Bush ai 14 mila miliardi di oggi. E sopratutto - cosa che alla fine gli elettori gli rinfacciano di più - con la disoccupazione ferma al 9.2 per cento. È lui lo sprecone. Non Bush che negli anni del boom di Wall Street ha raddoppiato quello stesso deficit che aveva ricevuto da Bill Clinton a 5.7 mila miliardi. Imbarcandosi nella costosissima - su tutti i fronti - guerra in Iraq.

Ma Barack non si arrende. Sempre Geithner dice che il presidente cercherà ancora "l'accordo più ampio possibile". E lo stesso Obama ricevendo gli ospiti ieri sera aveva risposto positivamente
all'appello dei reporter. Riuscirete a trovare l'accordo in dieci giorni? "We have to: dobbiamo" era stata la risposta del presidente riportata dai cronisti. Peccato che la Casa Bianca qualche minuto
abbia dovuto correggere la nota dei giornalisti. Il presidente ha detto: "We need to". Che in inglese suona più come un "dovremmo": avremmo bisogno di. Dovremmo proprio farcela. O quantomeno speriamo.

(11 luglio 2011)

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