martedì 19 luglio 2011

IL BOSSI PERDUTO CHE NON SA PIÙ DOVE VA

Dalle mosse del cavallo ai bizantinismi democristiani

di Luca Telese

Stavolta Umberto Bossi è davvero bollito. Nessuno lo vuole dire, esplicitamente, dentro e fuori la Lega, ma moltissimi lo sussurrano a mezza bocca: Umberto Bossi perde colpi. Nessuno lo dice così, nemmeno fuori, perché teme di finire sotto il fuoco ustorio del politicamente corretto e perché è difficile dire che Bossi perde colpi perché automaticamente scatterebbe l’accusa di infierire contro una persona malata.

INVECE Bossi perde colpi – e tanti – per motivi che prescindono del tutto l’ictus e dai suoi postumi, motivi che hanno poco a che vedere con la spigliatezza oratoria o con l’agilità intellettuale che segnarono la sua ascesa e che ora sono evaporati nel rutto, nel dito medio alzato e nella battutaccia sfiatata. Bossi perde colpi perché nessuno, nemmeno quelli che gli sono vicini, riescono più a capire dove stia andando e presumibilmente, nemmeno lui lo sa. Perde colpi e sembra un pugile suonato, prima di ogni altra cosa, perché non ha una linea.

C’era per esempio un Bossi, una volta, che sfotteva il suo stesso figlio soprannominandolo “Trota” e che non si sognava di rispondere ai satirici – come il geniale Maurizio Crozza – che mettevano in scena una pantomima grottesca del suo addestramento alla successione (“Ehi papi…”, “Dimmi trota”). E c’è invece un Bossi che sentendo aumentare la sua insicurezza arriva a designare quello stesso “Trota”, come “possibile successore” in casa leghista, mettendo in subbuglio tutti i colonnelli. E che sembra essere caduto prigioniero del “cerchio magico” che si è stretto intorno a lui negli ultimi mesi: la moglie, il figlio, l’ex sindacalista Rosi Mauro, e poi un puro e duro come Federico Bricolo e il minoritario capogruppo a Montecitorio, Reguzzoni.

C’era sicuramente il Bossi delle grandi sparate (come “La vita dei giudici vale meno di una pallottola” ), ma era un Bossi che dava alla sua irruenza il tono goliardico, antisistema e mai contaminato dal dubbio che lo rendevano così diverso dagli altri. Lui diceva cose del tipo “Questo è l’anno del Samurai” (1995, il grido di battaglia del ribaltone) “Berluskaz Berluskaiser, stavolta ti seghiamo il balconcino”, e tu capivi sempre dove voleva andare. E perché non avesse bisogno di ritrattare anche quando la sparava grossa: “Signora quel tricolore lo metta nel cesso”, alla mitica Lucia Massarotto da Venezia (correva l’anno 1997, adesso la signora è stata sfrattata). E Bossi diceva anche cose ferocemente sublimi del tipo.“Miglio? È una scoreggia nello spazio!”, al punto che era difficile distinguere l’imitazione di Corrado Guzzanti che gli attribuiva un’invettiva anti-papale come questa: “Wojtila è un papa polacco che ruba lavoro ai papi stranieri”.

Si arrabbiò come una belva, invece, il senatùr, quando lo stesso Guzzanti lo mise in scena con una maschera di ferro in viso alla Hannibal Lecter: “Quelli in Rai non ci tornano” (e infatti i Guzzanti, per un motivo o per un altro non tornarono). Ma era sempre la vendetta di un capo guerriero, dell’uomo che dopo una prima vita passata a fingere di essere medico (usciva da casa, come ha raccontato la prima moglie, con la valigetta e non era laureato), era diventato un leader, uno che ripeteva: “Mia moglie scende in battaglia con me”. Adesso è Manuela Marrone che viene sospettata di indicare la linea della battaglia. E il Trota, che lui prendeva simpaticamente per il culo adesso, fa lo statista, come se pensasse di essere diventato un delfino.

IL PUNTO di non ritorno è tutto racchiuso in un testa coda di venerdì 15 luglio, proprio a poche ore dal sì della Giunta della Camera all’arresto di Papa (coi due leghisti in commissione che si erano astenuti). Bossi intercettato dai cronisti è lapidario: il deputato Pdl deve andare “in galera”. Tutto a posto? Macché, nulla. Sabato 16 luglio, il Senatur torna indietro precipitosamente per dire l’opposto: “Le manette non vanno messe mai, se prima non facciamo il processo”.

Che cosa è successo, in quelle 24 ore? Di tutto. Il leader del Carroccio, per la prima volta, deve rincorrere se stesso, anziché guardare da lontano l’effetto che fa. C’è la Lega, la sua Lega che alla Camera ha un altro stratega, quel Bobo Maroni che era il più antico compagno d’arme quando andavano a fare le scritte sui cavalcavia. Ci sono decisioni che gli passano sulla testa, e su cui lui vuole mettere il cappello. E c’è Silvio Berlusconi che lo chiama per dirgli: “Umberto sei impazzito? Qui viene via tutto”.

Ma i ribelli della Camera avevano già dato un segnale della propria forza quando un mese fa stavano per decapitare Reguzzoni e il “Cerchio magico” si era dovuto stringere intorno al leader per convincerlo a cambiare idea. E il malessere era emerso anche dopo Pontida, per quello striscione enorme esposto nella piana: “Maroni premier”. E i bossiani a dire che era stato “autorizzato” dal leader (autorizzato un corno, se è vero che il giorno dopo aveva dovuto dire “Qui comando io”). E che dire di quelle grida che lo avevano quasi stupito “Secessione-secessione!”. E lui quasi a correre dietro al coro.

Dice Mauro Borghezio (uno che si definisce “Io sono in un solo cerchio: il cerchio operaio”), eurodeputato, ultimo cuore della Lega pura e dura, convinto che invece Bossi stia tornando faticosamente alle origini: “Bossi è lucido: qualche volta è stanco, certo. A Pontida era stanco, ma anche io a volte lo sono”. E aggiunge, quello che fino ad oggi ha tenuto insieme il gruppo dirigente: “Io in una Lega senza Bossi non potrei starci volentieri”. Già, il rischio di una guerra suicida per la successione è quello che fino ad ora ha fatto da freno. Ma è vero anche che la malattia ha creato un precedente. La Lega senza Bossi andava benissimo anche elettoralmente. E allora il problema è che Bossi perde colpi perché non si può essere uomini per tutte le stagioni, soprattutto se si è assunta la politica come dimensione epica, spettacolare, fantasmagorica. Ora Bossi è incatenato al berlusconismo come mai era stato legato a nulla.

Nel 1995 liquidò Berlusconi con una cena di sardine dopo aver passeggiato in sigaro e canotta nel suo giardino, e nel 2000 ricostruì l’alleanza con una spregiudicata passeggiata a Teano, prendendo il leggendario caffè con lo stesso Fini che aveva fatto voto di non incrociare mai più una tazzina con lui.

Ora Bossi è bollito perché lui, che era stato il re della mossa del cavallo, si ritrova costretto a provare la via degli ossimori democristianissimi, il rinnovamento nella continuità che logora chi lo fa. Alle amministrative Bossi poteva dire ai suoi che avrebbe divorato il Pdl, e spiegare a chi mordeva il freno a Milano per il sostegno alla Moratti (come Matteo Salvini) che a Gallarate si sperimentava lo sganciamento, con la Lega contro tutti. Bossi è bollito perché i voti del Pdl sono fuggiti via, perché a Milano ha perso con la Moratti e perché a Gallarate ha perso con la Bianchi Clerici.

Era il leader che le azzeccava tutte anche quando sembrava impossibile, adesso è quello che le sbaglia tutte, anche quando nessuno se lo aspetta.

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

FUSSE CA FUSSE LA VORTA BBONA!