venerdì 22 luglio 2011

La demagogia della paura è al capolinea

di Flavia Perina

Caro Direttore, il voto di martedì su Alfonso Papa ha seppellito l’estremo tentativo del Cavaliere di rifugiarsi nelle furbesche dinamiche antipolitiche che gli sono congeniali. Contro la richiesta di arresto, il Cavaliere poteva cercare un accordo alla luce del sole con i suoi partner di governo. Poteva ragionare con i Radicali o con l’Udc in nome del garantismo. Poteva appellarsi alla libertà di coscienza, chiedere alle opposizioni di non dare “ordini di scuderia” e cercare apertamente un sostegno trasversale alla tesi del carattere persecutorio della richiesta dei magistrati. Invece ha agito in coerenza con il suo esibito disprezzo del Parlamento e di chi ci lavora. Ha pensato che nel segreto dell’urna la pavidità, l’istinto di conservazione, la solidarietà di casta e soprattutto il terrore di una crisi al buio avrebbero spinto gruppi consistenti di deputati a sostenere la sua linea, tradendo le posizioni assunte pubblicamente. Ancora una volta, come già successe un anno fa ai tempi della espulsione dei finiani, ha sbagliato i suoi conti. Non solo in termini numerici.

Quel che il Cavaliere non ha capito, non può capire, è che la demagogia della paura non basta più a difendere lo status quo nemmeno a Montecitorio. Il messaggio che ha ossessivamente diffuso nell’ultima settimana – “Finirete tutti in balia dei magistrati, come nel ’92, se non aiutate Papa” – è scivolato sull’acqua esattamente come i terrorizzanti allarmi sull’invasione di punkabbestia, gay e islamici che hanno segnato la campagna del centrodestra a Milano. Anzi, quell’allarmismo esagerato e infondato, ha risvegliato una sorta di orgoglio primordiale, l’urgenza e l’istinto di distinguersi, di prendere le distanze dalla logica del “siamo tutti nella stessa barca”. Perché dovremmo esserci? Non siamo tutti Papa, o Milanese, o Romano, o chiunque altro in questi giorni è alle prese con guai giudiziari di serie A.

Nel voto di martedì, nella scelta di Maroni e del suo gruppo di rifiutare giochetti sottobanco, nella tenuta del Pd e dell’Udc, nella non facile coerenza di Fli dove il garantismo (vero) è un tema sentito, io vedo un segnale di risveglio della politica contro il premier che più l’ha disprezzata e maltrattata, pensandola come un gregge di professionisti del niente, “persone che non hanno mai lavorato, che non hanno combinato altro che prendere i soldi dei cittadini”, come ha gridato ai quattro venti in ogni occasione utile.

Quelle parole adesso si ritorcono contro il presidente del Consiglio. Il Parlamento, messo davanti al bivio se identificarsi con il “racconto” berlusconiano della politica stracciona e ladra, restando aggrappato al Titanic degli attuali equilibri, oppure chiamarsi fuori in modo plateale e forse definitivo, ha fatto la sua scelta. E il silenzio di ghiaccio che ha accolto l’esito della votazione, la rapida fuga dall’aula di quasi tutti, le lacrime di alcune deputate, il surreale spettacolo dei corridoi, della bouvette, del cortiletto già vuoti mezz’ora dopo un voto che in altre occasioni avrebbe suscitato infinite chiacchiere e commenti, parlano di uno strappo molto più significativo e profondo di quello che appare nei resoconti giornalistici del day after.

Neppure nel segreto dell’urna il Cavaliere riesce più a tutelare i suoi interessi, così come neanche con la costituzione dell’armata Brancaleone dei “Responsabili” è stato in grado di tenere in piedi la maggioranza in decine di votazioni, dal dicembre scorso ad oggi.

Anche il Pdl è consapevole del baratro che si è aperto. L’invettiva con cui il capogruppo Fabrizio Cicchitto ha denunciato la mancanza di segretezza del voto, minacciando sfracelli e abbandoni dell’aula se non si cambierà sistema, rivela la disperata necessità di negare l’evidenza di una libera scelta dei singoli e dei gruppi. È indispensabile nascondere ciò che davvero emerge dalla giornata di martedì: i partiti, tutti tranne quello del premier-padrone, si sono ripresi il gettone che avevano poggiato sul tavolo del Cavaliere e ricominciano a giocare in proprio. Magari sono incerti, spaventati, insicuri, probabilmente non hanno una visione chiara del “dopo”, l’idea del voto continua a terrorizzarli, ma preferiscono tuffarsi dalla nave di Silvio piuttosto che aspettare il naufragio.

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