sabato 23 luglio 2011

Spinte, insulti e tuffi: un Lìder chiamato “Spezzaferro”

di Daniele Martini

Rex superiorem non recognoscens, in regno suo est imperator”. Alla lettera: il re non riconosce superiori, nel suo regno è lui l’imperatore. Quel brocardo medievale alla base della moderna sovranità, è come la stella polare per Massimo D’Alema. Nel suo regno lui si considera sempre il primo, sopra di lui non può esserci nessuno. E siccome nella sua testa il suo regno spazia dalla politica alla letteratura, dal partito all’alta strategia, dalla vela alla diplomazia, dalla cura del corpo ai tuffi, lui si considera un fenomeno mondiale.

Il siparietto in Transatlantico di giovedì con Luca Telese del “Fatto” affrontato da D’Alema che con gesto ampio e volutamente plateale si toglie gli occhiali per riporli in tasca come per prepararsi a menare, stupisce solo chi non lo conosce davvero. Per D’Alema una sfida così a Montecitorio, una specie di “Ok Corral” tra il politico e il giornalista, equivale a un’ordalia, un giudizio di dio. E siccome dio sta con chi è nel giusto, e lui D’Alema si considera per definizione nel giusto e oltretutto dice di avere gli addominali a tartaruga come quelli dei modelli del mensile mondadoriano “Men’s Health”, è chiaro che se lo scontro ci fosse stato davvero non avrebbe potuto che avere un vincitore. Lui, naturalmente. A riprova che quelli del “Fatto” che osano non prendere per oro colato l’adamantina onestà sua e di chi gli ronza intorno, sono addirittura “tecnicamente fascisti”. E come tali meritevoli di una punizione esemplare, anche a botte, come un tempo che fu.

IL RAPPORTO di D’Alema con i giornalisti, considerati in blocco “iene dattilografe”, non è mai stato idilliaco e in qualche caso in passato è stato regolato sul piano dello scontro fisico. Stefano Salvi, il vice Gabibbo di “Striscia la Notizia” che a metà degli anni Novanta lo inseguiva cercando di farsi dire qualcosa sulla casa dell’Inpdap a Trastevere presa in affitto a prezzi stracciati, fu spintonato in malo modo da due agenti della scorta dalemiana che alcuni anni più tardi furono pure rinviati a giudizio.

All’inizio degli anni Settanta del secolo passato, quando cominciavo questo mestiere facendo il corrispondente dell’Unità da Pisa , lui era un dirigente di primo piano della Federazione comunista cittadina, responsabile della stampa e propaganda. Tutti gli pronosticavano un grande avvenire e sull’altare della politica gli perdonavano certi atteggiamenti che sembravano venati di supponenza. Con infinite cautele, una volta ne parlai con il segretario di Federazione, Giuseppe De Felice, un politico di razza. Mi disse che D’Alema era un timido e il comportamento da superuomo che teneva era solo una corazza. Presi per buona quell’interpretazione, e per anni ho guardato D’Alema con l’indulgente simpatia che provo per i timidi.

Quando passai a “Panorama” e nel 1995 con Giovanni Fasanella scrissi la biografia di D’Alema, mi convinsi che gli aspetti spigolosi del suo carattere si erano parecchio accentuati. In quelle 223 pagine c’erano anche tanti episodi del D’Alema muscolosamente super. Come quello della sua capacità di spezzare con la sola forza delle mani i tappi di ferro delle bottiglie, un’abilità che in seguito gli valse il nomignolo di “Spezzaferro”. O quello del tuffo, meno noto, ma forse più significativo. D’Alema che durante una gita in barca non ci sta ad essere da meno rispetto ad una giovane campionessa e ottima tuffatrice, e quindi sale e si tuffa da uno scoglio con un impegno così estremo che poi per una settimana non riesce più a muovere il collo. O quello delle interminabili prove davanti allo specchio per imparare l’arte della gestualità da comiziante. O l’episodio del cane, ritenuto da D’Alema un “cane coglione” perché non aveva bloccato un ladro e quindi da punire con il supplizio della scodella piena di cibo spostata in continuazione con un piede davanti al suo muso, così che non riuscisse a mangiare. Con il risultato che il cane innervosito alla fine si vendicò mordendogli l’alluce fino all’osso.

PROPRIO perché è da sempre intimamente convinto di essere “Er Più”, D’Alema non sopporta chi non riconosce la sua grandezza e non si inchina ad essa. Ma siccome sotto sotto è anche un insicuro, non può fare a meno di circondarsi di gente che lo lusinga e non lo contraddice mai. I Lothar, i consiglieri che lo seguivano a palazzo Chigi alla fine degli anni Novanta quando lui era capo del governo, gli servivano anche a questo: a confermargli il convincimento di essere il più bravo. Nel culto del capo il più ortodosso era Claudio Velardi, da ultimo consulente del Pdl Gianni Lettieri alle comunali di Napoli. Una volta ad un’assemblea di partito, mentre D’Alema parlava nel silenzio, inopinatamente dalla sala si alzò un “bravo!” stentoreo. “È arrivato Velardi” mi sussurrò in un orecchio il collega che avevo a fianco.

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Un ritratto impietoso e condivisibile.