sabato 23 luglio 2011

PENATI, SONO GUAI SERI

Imprenditori in fila per accusare il dirigente Pd
E il partito di Bersani scarica il suo uomo forte

di Giorgio Meletti

Per capire dove sta portando l’inchiesta sulle presunte tangenti rosse di Filippo Penati a Sesto San Giovanni conviene partire da un dato. Un imprenditore si è preso la briga di fare una stima, e basandosi sulla sua esperienza diretta e indiretta ha calcolato che negli ultimi dieci anni il sistema delle imprese della ex Stalingrado d’Italia potrebbe aver prodotto un flusso di finanziamento parallelo per i partiti di 80 milioni di euro. I costi della politica sono quelli che sono.

E ADESSO qualcuno comincia a chiedersi quali siano state le vere ragioni delle dimissioni di Filippo Penati da capo della segreteria politica del Pd, cioè braccio destro di Pierluigi Bersani, lo scorso mese di novembre. Una vicenda singolare, a riguardarla bene. A metà novembre, quando Giuliano Pisapia vince le primarie per la candidatura a sindaco di Milano sconfiggendo clamorosamente il candidato del Pd Stefano Boeri, Penati, uomo forte del Pd lombardo, prima fa finta di nulla, mentre i vertici regionali del partito si dimettono (sia pure per poche ore). Poi, dopo un paio di giorni e un perentorio invito della dalemiana Velina Rossa, dà l’annuncio: “Credo che sia necessaria una mia assunzione di responsabilità”.

C’è un’apparente stranezza: per aver toppato le primarie di Milano Penati si punisce, come Muzio Scevola, rinunciando all’incarico nazionale e annunciando che concentrerà tutti i suoi sforzi su Milano. Avrebbe avuto più logica promettere di occuparsi, da quel giorno, solo di politica estera.

Per questa incongruenza oggi non pochi esponenti del Pd lombardo e nazionale cominciano a sospettare che già a novembre Penati avesse sentore della valanga giudiziaria in arrivo, e per questo potrebbe aver deciso di togliere d’imbarazzo il suo amico ed estimatore Pierluigi Bersani. Il quale adesso sta silenziosamente approvando il trattamento “mela marcia” per l’ex sindaco di Sesto San Giovanni: “Il Pd non ha mai preso finanziamenti illeciti", ha assicurato ieri in una nota Antonio Misiani, tesoriere del partito. Va notato il virtuosismo dialettico. Il Pd dichiara con nettezza di non aver mai preso mazzette, e addirittura fa sapere di aver scatenato i suoi legali contro “informazioni di stampa ambigue e fuorvianti”, a difesa del “buon nome” (testuale) del partito. Ma quando si parla di Penati anziché escludere che abbia preso tangenti, ci si augura che l’interessato chiarisca e riesca a dimostrarsi innocente. I casi sono due: o il Pd può garantire l’onestà del partito in generale ma non dei suoi singoli esponenti anche di primo piano, oppure Penati è già considerato fuori dal Pd, di cui tornerà a far parte solo dimostrando di essere pulito. Se invece si scoprisse che ha rubato davvero, è ovvio che lo avrebbe fatto per sè e non per il partito.

L’imbarazzo del Partito democratico è dovuto al fatto che il caso di Sesto San Giovanni è molto più grosso di quanto non si creda. Davanti al pm di Monza Walter Mapelli prende forma l’immagine di una riedizione di Tangentopoli vent’anni dopo. Non tanto per le dimensioni e la gravità dei fatti, ancora tenute gelosamente segrete dai magistrati, quanto per il “modello di funzionamento” che decine di testimoni hanno ricostruito davanti a Mapelli.

Il primo accusatore di Penati, l’imprenditore sestese Piero Di Caterina, amico d’infanzia dell’ex sindaco, quando è stato chiamato a dare spiegazioni su alcune fatture sospette (che l’interessato rivendica come perfettamente regolari) ha assunto una posizione pasoliniana: “So, ma non ho le prove”. Però ha parlato a lungo, ha spiegato perché è difficile trovare le prove della nuova versione da Terzo millennio della “dazione ambientale”, e poi ha dato ai magistrati la chiave di lettura più preziosa: “Non ne possiamo più di pagare”. Come vent’anni fa: richieste crescenti, un ceto politico che da una parte mette in ginocchio le imprese con la sua incapacità di decidere e mantenere gli impegni, dall’altra le vessa con pretese sempre più arroganti.

HA PARLATO al plurale, Di Caterina, e ha fatto seguire la lista, preziosissima per i pm, di tutti gli imprenditori che come lui ne avevano le tasche piene. Mapelli li ha chiamati tutti, e li ha trovati divisi in due partiti: quelli che hanno ancora paura, o posizioni da difendere, e hanno finto di cadere dalle nuvole. E quelli che hanno confermato le accuse di Di Caterina, in certi casi rincarando la dose. Come nel caso dell’ottantenne Giuseppe Pasini, che ha descritto minuziosamente le dazioni di denaro che sembrano, per ora, incastrare Penati.

A parte Pasini, pochi dispongono di prove. La nuova Tangentopoli è fatta così: scompaiono le buste piene di banconote, compaiono le consulenze all’architetto amico, le fatture incassate dall’impresa di area, il prestito chiesto all’imprenditore amico che se lo fa restituire dal collega concusso. Un fenomeno pervasivo e nello stesso tempo “soffice”, dicono gli imprenditori ai magistrati. Un sistema in cui bisogna essere amici dei politici, che non praticano l’estorsione, ma chiedono il favore (la sponsorizzazione al convegno, un po’ di pubblicità al giornale locale del partito, l’assunzione di una figlia, il pagamento di una fattura a qualche misteriosa società straniera). Una mano lava l’altra, tra amici. E chi decide di dire basta va incontro a guai seri. Una pratica edilizia da un mese può arrivare a sette-otto mesi, e tu magari perdi l’affare, come è accaduto a Pasini, che doveva costruire la nuova sede di Intesa Sanpaolo e il nuovo centro di produzione di Sky, e sta accusando la giunta comunale di avergli fatto perdere i due affari (e posti di lavoro a Sesto) con lungaggini burocratiche non casuali.

Adesso l’inchiesta si allarga, e punta sui collegamenti nazionali : il volume degli affari di Sesto può produrre finanziamenti superiori alle esigenze della politica locale. Ma punta anche sui fatti più recenti, che riguardano l’attuale sindaco Giorgio Oldrini. Il quale ha dichiarato ieri di non sapere se è indagato o no, ma di essere certo di non aver commesso niente di penalmente rilevante.

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