venerdì 29 luglio 2011

Veleni P4, Roma vuole mangiarsi Napoli

GIANCARLO CAPALBO
GIANDOMENICO LEPORE

Alla fine lo scontro, covato per mesi, è esploso. La Procura di Roma e quella di Napoli dialogano ormai con lettere nelle quali si contendono i fascicoli più delicati e a suon di interviste e comunicati dal tono apparentemente felpato, ma che lasciano trapelare diffidenza e risentimento.

Tutto inizia ieri di prima mattina: L'Espresso lancia l'anticipazione della sua intervista al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo. Il coordinatore dell'antimafia romana abbandona il consueto riserbo e consegna le pagelle alle procure italiane. Promosse quelle che lavorano e producono centinaia di milioni di euro in confische e restituzioni (ovviamente la sua, anzi lui stesso) e bocciate le altre procure che invece fanno parlare solo i giornali. “Molto raramente”, dice Capaldo a Lirio Abbate, “le inchieste della Procura di Roma compaiono sulla stampa in modo scandalistico proprio perché c'è un costume corretto dell'ufficio. Se compaiono è per l'importanza oggettiva delle inchieste e non per il clamore, un po' provinciale, che qualcuno vuole dare alle proprie indagini". Ogni riferimento a Henry John Woodcock è ovviamente casuale e non voluto. Ovviamente Capaldo precisa al collega Lirio Abbate che non ce l'ha con una procura in particolare ma poi, aggiunge una nella domanda successiva sui colleghi napoletani che indagano su fatti avvenuti a Roma: “La competenza è importante”, spiega Capaldo, “non è un fatto burocratico, è un primo aspetto di legalità, il paese difetta di legalità e la magistratura deve dare l'esempio di una legalità complessiva”. Eccolo il punto. La competenza. Quale sarà la procura che difetta di legalità e indaga su fatti romani?

Non è un mistero che la Procura di Roma vuole sfilare a quella di Napoli l’indagine sulla P4. A marzo, due giorni dopo una riunione nella quale si erano fatti raccontare cosa bolliva nel pentolone di Woodcock e Curcio, stranamente il procuratore capo di Roma Giovanni Ferrara scrisse una lettera al collega napoletano Giandomenico Lepore per chiedergli di mollare le 18 mila pagine piene di verbali e intercettazioni. Lepore rispose picche e sembra che tra i magistrati che la presero meno bene a Roma c’era proprio il dottor Capaldo.

La posizione di Capaldo e Ferrara, motivata con ragioni tecniche, non è uscita certamente rafforzata dalle recenti rivelazioni di Marco Milanese sul pranzo del dicembre scorso al quale il deputato Pdl avrebbe partecipato con il pm Capaldo e il ministro Tremonti a casa dell’avvocato Luigi Fischetti. Proprio ieri si è appreso che su quel pranzo il Csm vuole vederci chiaro. Alcuni consiglieri togati hanno chiesto di aprire una pratica affidata alla Prima commissione del Consiglio, quella che si occupa di valutare l’incompatibilità e le inchieste riguardanti i magistrati. Tre giorni prima del pranzo, Capaldo aveva sentito un teste che aveva puntato il dito contro Milanese, anche se il pm di Roma ha detto che prima della verbalizzazione di quelle parole si era alzato lasciando solo il collega Paolo Ielo.

“Non c'è nulla di illecito – ha commentato Capaldo con L’Espresso – solo i malpensanti possono credere che si sia parlato di fatti giudiziari. L’incontro tra un giudice e un ministro non è un fatto illecito”. In serata è arrivata la replica del procuratore di Napoli: “Non penso – ha detto Lepore – che Capaldo si sia riferito, anche indirettamente, alla Procura di Napoli, che essendo la più grande procura d’Italia, non ha bisogno di ricercare clamori un pò provinciali”. “Nel caso mi sbagliassi – conclude il capo dei pm napoletani – preferisco non aggiungere altro per evitare, è il caso di dirlo, 'clamori provincialì. Peraltro la Procura di Napoli collabora con quella di Roma e ci sono stati continui scambi di atti e informazioni con il procuratore aggiunto Alberto Caperna e con il sostituto Paolo Ielo”.

I nomi di Capaldo e Ferrara non sono citati.

M. L.

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