di Peter Gomez
Proprio come aveva preannunciato il 5 agosto, con uno scatto quasi d’ira in Parlamento, anche ieri Silvio Berlusconi è rimasto “in trincea”. Col corpo, certo, il premier è lì, nel suo buen retiro di villa
Mentre quello che suo padre chiamava “l’orologio rotto della Borsa” riprendeva in chiusura un po’ di fiato, i titoli Mediaset e Mondadori hanno continuato a segnare rosso fisso (rispettivamente meno 47,14 % in un anno e meno 25,92 in sei mesi). E nemmeno il leggero recupero di Mediolanum (+1,92%) è bastato per ridare al Cavaliere il buon umore. Pure a guardare il grafico del gruppo gestito dal socio Ennio Doris vengono, del resto, le vertigini: qui l’asticella dal febbraio a oggi è scesa del 38,61%. Il tutto in una Piazza Affari che in un anno ha perso solo (si fa per dire) il 25 per cento.
Eh sì, il Cavaliere ha un bel ripetere che le “Borse hanno una vita scostata da quella economica”. Può benissimo tentare di usare Palazzo Chigi per invitare i cittadini a comprare azioni del suo gruppo (“io se avessi risparmi importanti da parte, investirei prepotentemente nelle mie aziende” ha detto in conferenza stampa quattro giorni fa). E può persino (non senza qualche ragione) ricordare che la crisi è internazionale e generalizzata.
Resta però un fatto. Anzi ne restano due. Il primo: negli ultimi dieci anni (otto dei quali con Berlusconi al governo) il Pil italiano è cresciuto in media dello 0,25% ogni 12 mesi: un dato migliore solo a quello di Haiti e Zimbabwe. Il secondo: la storia italiana del Berlusconi imprenditore di successo, che proprio per questo avrebbe saputo cosa fare con la nostra economia, è appunto una storia. Anzi una favola.
E non perché il politico più ricco del mondo una volta andato al potere sia diventato improvvisamente un incapace. Ma perché il Cavaliere ha applicato al sistema Italia le stesse tecniche che utilizzava nella gestione delle sue aziende. Scorciatoie, trucchi, poco o nessun rispetto delle regole. Sistemi buoni per fare cassa, per salvarsi per il rotto della cuffia, ma non certo per modernizzare e rendere competitivo un paese.
Così, se un tempo i suoi manager per evitare problemi con le tasse versavano mazzette alla Guardia di Finanza (lo ha fatto l’attuale senatore Pdl, Salvatore Sciascia), Berlusconi per tre volte, tra il 2001 e il 2009, tira su qualche miliardo, facendo approvare lo scudo fiscale. La tangente (legalizzata) è del 5 per cento e mette l’evasore al riparo al riparo da ogni conseguenza. Per chi non ha conti all’estero il premier, inventa invece due condoni tombali (2003 e 2009) e una legge che depenalizza di fatto il falso in bilancio (2001).
Anche in campo economico a Palazzo Chigi si va avanti allo stesso modo, prendendo a modello ciò che si era fatto con la vecchia e gloriosa Fininvest tra il 1992-93. Si scommette per anni sulla ripresa internazionale (che quando poi è arrivata non si è peraltro stati in grado di agganciare), ma si evita di procedere con le ristrutturazioni. Per rendersene conto basta leggere alcuni documenti: i verbali delle riunioni dei manager del Biscione allora redatti dall’ex segretario di Berlusconi e attuale senatore Guido Possa. A quel tempo i debiti totali del gruppo ammontavano 4.550 miliardi di lire, contro i 3.300 comunicati ai giornali. I manager temevano il default e suggerivano dismissioni e profondi cambiamenti. Niente da fare. Il colpo di genio di Berlusconi è una furbata: aspettare, spingere
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