di BARBARA SPINELLI
NON HA AFFATTO torto Berlusconi, quando dice che non riesce a fare tutto quel che desidera, imbrigliato com'è da poteri che sfuggono al suo controllo: il potere della giustizia e dei giornali, della Costituzione nazionale e di quella europea, dei mercati finanziari e delle agenzie di rating. Tutto gli sta stretto, l'intralcia: la democrazia con le sue istituzioni plurali, i mercati finanziari e l'Europa che d'un tratto gli strappano la corona e lo scettro che immaginava di possedere. Il presidente del Consiglio non ha torto ma non sa la storia che vive: così come non comprende quel che significhi democrazia - al di là del momento magico in cui il popolo elegge governi e parlamenti - oggi non comprende l'enorme mutazione economica cui viene dato il nome, eufemistico, di crisi.
Quel che l'intralcia non è una forza esterna: è l'interiore non-forza del suo animo. È con la realtà che gli tocca fare i conti, dopo averla ignorata o imbellita per anni. La sua favola era già malandata ma ora si spezza, come accadde per bolle speculative nel 2007. I mercati intuiscono questo ritardo mentale, quando scommettono sull'insolvenza italiana. Sono come i rivoltosi che in questi giorni stanno incendiando Londra: agiscono istericamente, perché quel che li muove è l'istinto del gregge spaventato. Ma se l'istinto si scatena con tanto impeto è perché i mercati non scorgono, al timone del bastimento Italia, un uomo con la capacità di comando e l'intelligenza della realtà. Svelto a capire e cambiare, Umberto Bossi - lo stesso Bossi che dieci anni fa inveiva contro la "burocrazia apolide" dell'Europa-superstato - ha dichiarato lunedì: "Per tanto tempo il Paese ha speso più di quanto poteva, e un bel giorno la realtà ha preso il treno ed è venuta a trovarci. Dobbiamo andare dietro all'Europa e fare le riforme.
Non basta che il capo del governo dica, come ha detto il 4 agosto: "Sono un tycoon, so come ci si muove nei mercati del mondo". Il comandante deve salvare non solo questo o quel tycoon nella tormenta, ma portare a riva nave ed equipaggio, dunque l'intera nazione. Il comandante che supera la prova, come nei romanzi di Conrad, non è quello che messo alla prova dal tifone o dalla malattia dei marinai commenta: "Il tifone sta sbagliando, noi stiamo benissimo e lo eviteremo". È quello che traversa il tifone, e esplorando la crisi finanziaria scopre quel che essa racchiude: la metamorfosi, dolorosa, dello sviluppo cui siamo abituati. Una sotterranea redistribuzione delle risorse dagli Stati di antica industrializzazione alle potenze emergenti. Una crescita che nei paesi ricchi rallenterà durevolmente, e dovrà mutare natura. Il parto del nuovo modello di sviluppo è pieno di doglie, ma la politica è imbelle di fronte alle sue fatiche, e i governi sono impreparati a dire la verità ai popoli. Così come l'Euro è fragile perché non è sorretto da uno Stato europeo, così l'Italia è più che mai fragile, oggi, perché sorretta da un tycoon senza senso dello Stato.
Questa fragilità viene descritta, da quando Berlusconi ha precipitosamente cambiato rotta, come un "commissariamento", una messa sotto tutela da parte di poteri esterni, lontani. Anche questa, tuttavia, è una descrizione colma di insidie, è una benda attorno agli occhi che impedisce di guardare in faccia la verità dei fatti. Gridare al commissariamento significa ignorare che la moneta unica è nata per creare in Europa uno spazio comune, una pòlis allargata, all'interno della quale ogni cosa era destinata a mutare: i comportamenti, gli obblighi, soprattutto l'idea di sovranità nazionale.
Lo ha spiegato con acutezza Lorenzo Bini Smaghi, membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea, in una conferenza a Poros dell'8 luglio scorso: di fatto, l'unione monetaria "è già un'unione politica", con tutte le conseguenze che essa richiede. Quel che fai all'interno della tua nazione ha effetti sulle altre, e viceversa. La piccola Grecia rappresenta solo il 2 per cento delle ricchezze prodotte in Eurolandia, ma la sua crisi coinvolge tutti gli Stati, compresi i più virtuosi.
Il guaio, spiega Bini Smaghi, è che le classi dirigenti nazionali (governi, mezzi di comunicazione, accademici) ancora non se ne rendono conto: "L'unione monetaria implica un livello di unione politica molto più alto di quanto pensino molti commentatori, politici, accademici, cittadini. (...) Il modello istituzionale va adattato al fatto che l'unione monetaria è in realtà un'unione politica". La sovranità politica, gli Stati la recuperano solo se cominciano a sentirsi responsabili, nelle loro azioni, di un bene pubblico che copre lo spazio di Eurolandia, e non solo il cortile di casa. Se danno a Eurolandia gli strumenti, i metodi di decisione, le risorse per funzionare. Se favoriscono, con un discorso di verità, la nascita di un'agorà europea, di un'opinione pubblica che sia in grado di pensare se stessa dentro la nazione, dentro l'Europa, e dentro il mondo. Se questo non avviene vuol dire che il destino delle nostre economie e della nostra civiltà sarà stato messo nelle mani dei mercati. Inutile, a quel punto, scalmanarsi e dire che sbagliano.
Per questo è così fuorviante parlare di commissariamento. Non siamo commissariati, non perdiamo sovranità, per il semplice motivo che un certo tipo di sovranità è già perduta. L'Euro, l'abbiamo visto, fu inventato per questo: perché solo attraverso un'unione di forze i politici nazionali possono ridivenire sovrani, anche se non più assoluti. Il fatto che i politici e le opinioni pubbliche non digeriscano questa nuova realtà non significa che essa non esista. Significa che sono ciechi; che i tifoni li osservano inforcando gli occhiali nazionalisti di ieri.
Berlusconi non è il solo a scaricare su poteri esterni le responsabilità, sminuendo la propria forza e quella dell'Unione europea. Tutti gli Stati fingono di possedere le vecchie sovranità, di poter agire da sé: per questo s'aggrappano all'unanimità, in tante decisioni che prendono in Europa, rendendo quest'ultima così lenta ad agire o addirittura vietandole di agire. Non dimentichiamo che Francia e Germania furono le prime, nel 2003, a rifiutare le discipline del Patto di stabilità, e le sanzioni che esso comporta. Furono le prime ad assimilare tale autodisciplina a un umiliante commissariamento. Fu un precedente ominoso, che ancor oggi frena i tentativi degli Stati europei di sorvegliarsi l'un l'altro con il tempismo, la severità, l'imparzialità necessari.
Se gli Stati furono così indulgenti con Parigi e Berlino perché non lo sono anche con Roma e Madrid? Forse i primi hanno speciali privilegi? In un recente articolo sul Financial Times (20-6-11), Mario Monti ha denunciato la deferenza e gentilezza che regna tra gli Stati di Eurolandia: una deferenza paralizzante, che tranquillizza lo spazio d'un mattino. Vissuto come un disonore, il commissariamento non riesce ad imporsi per quello che è: un intervento dell'Unione politica di cui siamo parte, una risposta alla crisi-mutazione dell'economia, della politica, delle democrazie.
Se la politica avesse questa capacità di risposta, già ora si accingerebbe a rifondare le proprie istituzioni, nazionali e sovranazionali. Non lascerebbe sola
(10 agosto 2011)
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