giovedì 11 agosto 2011

Il triangolo europeo


Se Mao Tse Tung fosse vivo e fosse europeo, almeno a parole saprebbe come affrontare l’onda sismica dei mercati: serve, direbbe, un «grande balzo in avanti». Lui aveva il gusto delle definizioni, e avrebbe capito, nell’abissale diversità tra la Cina totalitaria del 1958 e l’Europa democratica di oggi, che per affrontare il pericolo non basta arretrare. Non basta scavare trincee difensive che di volta in volta si dimostrano incapaci di fermare il nemico invisibile della sfiducia, anche se gli europei, così facendo, sono giunti a un risultato paradossalmente positivo: è stata fatta chiarezza, l’euro è nudo con o senza contagi provenienti dagli USA, nudi sono i suoi dirigenti politici, in bilico è l’intera eurozona (e dunque l’intera Europa) sospesa tra il fallimento e un rilancio epocale.

Certo, che quelli attuali non siano tempi di grandi leader, e non soltanto in Europa, è cosa risaputa. Ma il tramonto degli statisti non deve necessariamente portare a una cecità suicida. E qui nasce un primo problema: la natura odierna del vecchio asse franco-tedesco. Nella stonata orchestra europea sono ancora loro, Sarkozy e Merkel, a battere il ritmo con i loro comunicati congiunti, a distribuire elogi o rampogne, a fissare il limite del possibile alla vigilia di ogni vertice. Ma con una novità di grande rilievo: la coppia è diventata una triade, perché, malgrado tutte le evidenti differenze di ruolo rispetto ai governi nazionali, la Banca Centrale ha assunto compiti di leadership e di intervento come mai prima aveva fatto. In realtà l’Europa di oggi è guidata da un asse Sarkozy-Merkel- Trichet, che da ottobre diventerà Sarkozy-Merkel- Draghi.

Ed è all’interno di questo trio che si colloca la decisiva questione tedesca, quella che può consentire o vietare il «grande balzo in avanti» di cui l’eurozona ha bisogno. Finalmente consapevole di essere sull’orlo del burrone e dei danni che anche la Germania subirebbe da una caduta, la signora Merkel ha accettato il 21 luglio di potenziare il Fondo salva-Stati (FESF) e di accrescere la sua flessibilità consentendogli di elargire prestiti, di intervenire sul mercato secondario dei titoli di Stato e persino di ricapitalizzare banche in difficoltà. La messa a punto del nuovo meccanismo prenderà nel migliore dei casi fino al vertice di fine settembre, e nel frattempo la BCE sta surrogando compiti che poi spetteranno al Fondo. I più ottimisti vedono in questi accordi la nascita di una sorta di «Fondo monetario europeo», e sottolineano che è stato fatto un passo importante nella giusta direzione. Cosa certamente vera. Ma pur compiendo uno sforzo che deve esserle costato parecchio, Angela Merkel non ha ancora varcato il suo Rubicone.

La Germania non vuole che la Ue diventi una «unione di trasferimenti ». Respinge cioè un criterio di solidarietà istituzionalizzata che la costringerebbe a pagare per chi non ha fatto sacrifici. Quei sacrifici che i tedeschi hanno fatto nell'ultimo decennio, e che sono all'origine della loro attuale crescita e prosperità economica. No, dunque, agli eurobond che avrebbero l'effetto di mettere in comune il debito complessivo. Linea dura con la Grecia, e, oggi, linea severa benché pragmatica con l'Italia e con la Spagna che non hanno fatto le riforme necessarie o le fanno troppo lentamente.

Un simile approccio ha fondate motivazioni storiche e costituzionali. Ma la vera questione che si pone è di volontà politica. La popolarità della signora Merkel ha già molto sofferto, l'opinione pubblica è poco propensa a «pagare per gli altri» oltre un certo limite, nel 2013 in Germania si vota. Sarà tanto forte e tanto europeista, il Cancelliere, da disinnescare la rotta di collisione tra lecite convenienze politiche e visione da statista, tra democrazia nazionale e futuro dell'Europa? Se la risposta tedesca fosse positiva diventerebbe accettabile una responsabilità comune davanti ai debiti nazionali, gli eurobond diventerebbero strumento coerente del nuovo assetto, dal Fondo salva-Stati si potrebbe passare a quella forma di governo finanziario sovrannazionale che oggi non esiste e che proprio con la sua assenza stimola i mercati e rende vulnerabile l'euro. Il tutto, beninteso, continuando a tenere sotto pressione (come in Italia) governi reticenti e opposizioni poco propositive, ritardi tattici e (è ancora il caso dell' Italia) tentativi di tutelare i propri interessi elettorali facendo scattare il ben noto «ci costringono gli altri».

La posta in gioco, dietro la mannaia dei mercati, è questo «grande balzo in avanti» che a conti fatti risulterebbe ben più ambizioso di quello di Mao. Tanto ambizioso che nemmeno a Maastricht fu possibile compierlo. Tanto necessario che bisogna sperare nella Germania, e nella nuova «triade» europea.

Franco Venturini
09 agosto 2011

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