domenica 25 settembre 2011

L'Italia precipita senza paracadute


di EUGENIO SCALFARI

Le Borse ondeggiano su un Ottovolante dove le risalite sono lente e le discese mozzano il fiato; lo "spread" con l'aiuto della Bce si mantiene sulla "borderline" a cavallo dei 400 punti-base; l'euro perde colpi rispetto al dollaro; le economie di tutto l'Occidente ristagnano senza speranze e intanto si parla sempre di più di un "default" della Grecia pilotato dall'Europa. Il tema della crescita diventa sempre più cruciale ma sempre più disatteso. I governi nazionali non hanno né la forza né la fantasia per varare interventi di rilancio che rimettano in moto il sistema mentre si profila una crisi bancaria internazionale connessa appunto con il "default" greco e con l'attacco al debito italiano.

I portafogli delle banche di tutto l'Occidente sono imbottiti di titoli italiani. Non sono titoli insolvibili ed ogni paragone con la Grecia è infondato. Ma i tassi d'interesse pagati dal Tesoro alle aste che si susseguono con scadenze ravvicinate sono diventati proibitivi. Siamo ormai in prossimità del 6 per cento. Se si andasse avanti così ancora per qualche mese la finanza pubblica si avviterebbe su se stessa ed allora anche il problema della solvibilità si porrebbe in modo allarmante.

Il nostro governo è in grado di fronteggiare una situazione da brivido come questa? Finora sono stati adottati soltanto provvedimenti di rigorismo finanziario, indispensabili ma depressivi sull'economia reale. E ancora non bastano.
Quanto potremo andare avanti così?

La sfiducia verso il governo è ai massimi e si estende a tutta la classe politica. L'antipolitica non è una risorsa ma un cappio al collo e chi la incoraggia non fa che allevare un mostro e peggiorerà ancora di più una situazione già fuori controllo.

* * *
Venerdì al Quirinale, parlando agli studenti che iniziano sotto pessimi auspici il nuovo anno scolastico, Napolitano è intervenuto ancora una volta sul tema dell'economia. Ha suggerito e in qualche modo imposto al governo tre nuove priorità:
abbattere in modo consistente lo stock del debito pubblico, introdurre stimoli fiscali per accrescere il potere d'acquisto dei redditi medio-bassi e la propensione delle imprese a investire, diminuire le diseguaglianze sociali e geografiche che dividono il paese e ne rendono difficile la coesione. Questi provvedimenti, secondo Napolitano, dovrebbero essere adottati entro l'attuale sessione di bilancio, cioè subito.

Gli interventi del Capo dello Stato sulle questioni economiche sono ormai quasi giornalieri, in rapporto diretto con il ruolo di supplenza che il Quirinale è costretto ad esercitare dall'afasia del governo; afasia tanto più perniciosa poiché si accompagna ad uno scontro ormai palese e non ricomponibile tra il "premier" e il ministro dell'Economia. Con quest'ultimo non siamo mai stati teneri ma in quest'occasione riteniamo che il linciaggio cui è stato sottoposto in occasione del voto sull'arresto di Marco Milanese sia inaccettabile. Stava per cominciare a Washington un incontro internazionale presso il Fondo monetario per discutere questioni della massima urgenza ed emergenza. Sarebbe stato a dir poco grottesco se Tremonti fosse arrivato con grave ritardo o affatto per votare alla Camera l'arresto di Milanese. Ciò detto, continuiamo a pensare che sia stato un pessimo ministro dell'Economia alle prese con un pessimo presidente del Consiglio.

Resta da vedere che cosa farà il Capo dello Stato se le sue indicazioni resteranno lettera morta. Nel recente passato furono rispettate sia dal governo sia dall'opposizione salvo quelle riguardanti la crescita, sulla quale in verità la Bce e il Quirinale si limitarono a generiche raccomandazioni. Ora finalmente la crescita è stata posta al primo posto insieme al taglio del debito.

Ma c'è il problema della credibilità del governo e di chi lo guida. Su di esso Napolitano non può fare nulla formalmente. Potrebbe fare molto sostanzialmente ma, almeno per ora, se ne astiene, sicché il tappo che ostruisce il sistema resta ancora conficcato a Palazzo Chigi con gravissimo danno per il paese e per l'Europa.

* * *
Diminuire il debito. Non lo dice soltanto Napolitano ma anche Draghi, anche l'Europa, anche l'America. Ma come? E quanto?

La soglia di sicurezza - secondo il parere di alcuni suggeritori - sarebbe "quota novanta": 90 per cento rispetto al Pil di fronte all'attuale 120, il che significa in cifre assolute non meno di 400 miliardi. Ma come? Vendendo beni mobili e immobili dello Stato? Sarebbe una pessima pezza. La parte maggiore è composta da immobili di difficile "appeal" nell'attuale carenza di domanda
. Si potrebbe cartolarizzarli e poi collocare quei titoli nelle mani delle banche. Ma chi accarezzasse quest'idea avrebbe smarrito la ragione: il nostro sistema bancario ha il portafoglio gonfio di Buoni del Tesoro a lungo termine ed è questa la sua attuale debolezza. Vogliamo rifilargli anche una massa di immobili cartolarizzati?

L'altra soluzione intravista sarebbe un forte prelievo "una tantum" sul patrimonio dei contribuenti. Attenzione: provocherebbe una fuga massiccia di capitali e lo "spread" potrebbe toccare livelli molto elevati. Quindi non è questa la strada giusta. Del resto non fu questa l'operazione messa in atto da Ciampi ai tempi del suo governo nel 1993 in una situazione economica anche allora molto pesante. L'obiettivo di Ciampi fu quello di far emergere un consistente attivo delle partite correnti al netto degli oneri pagati sul debito. Quest'attivo superò il 5 per cento.

Quando obiettivi del genere sono raggiunti il debito pubblico comincia a diminuire e continua in quel ciclo virtuoso suscitando effetti di auto-alimentazione perché la diminuzione graduale del debito ne fa diminuire gli oneri e di conseguenza fa accrescere il saldo attivo delle partite correnti.

Queste operazioni possono essere utilmente rafforzate con un prelievo patrimoniale non straordinario ma ordinario e di modesta entità, scaglionato tra 0,5 e 1,50 per cento
. Consultare in proposito Mario Draghi sarebbe utilissimo, ma ancor più utile sarebbe consultare Carlo Azeglio Ciampi.

* * *
Un'osservazione per quanto riguarda l'obbligo del pareggio di bilancio da inserire nel nostro ordinamento con legge costituzionale. Il plauso a questa novità sembra generale anche se ci vorrà almeno un anno prima che la legge entri in vigore. A me non sembra affatto una panacea.

Intanto occorrerà precisare se quella norma si applicherà al bilancio preventivo o al consuntivo, alla cassa o alla competenza, ai saldi o ai flussi. Poi occorrerà stabilire a chi spetti accertare se la norma è stata rispettata. Non potrà certo essere il ministro dell'Economia che è parte in causa come ogni altro membro del governo. Si dovrebbe affidarne il compito ad una apposita sezione della Corte dei Conti che dovrebbe poter ispezionare l'andamento delle partite correnti nel momento stesso in cui le decisioni vengono prese. Di fatto si dovrebbe equiparare la Corte dei Conti al funzionamento della Ragioneria generale dello Stato con in più l'indipendenza della quale la Corte gode.

Invece di imbarcarsi in una procedura così complessa che di fatto equivale al commissariamento della politica economica nelle mani d'un Ragioniere "sui generis", sarebbe molto meglio
rafforzare l'articolo 81 della Costituzione rendendo obbligatoria la copertura d'ogni spesa soltanto con aumento di entrate o taglio di spese senza ricorso al credito e senza alcuna deroga. Un rafforzamento del genere dell'articolo 81 non ha bisogno d'una legge costituzionale, può essere ottenuto con legge ordinaria che rappresenti l'interpretazione autentica dei principi e delle norme già contenute in quell'articolo.

* * *
Non pensiamo che si possa andare avanti fino al 2013 e neppure fino alla primavera del 2012 con un governo fatiscente e ritenuto addirittura non frequentabile dalle cancellerie internazionali.

Se la Grecia andrà in "default pilotato" ci sarà un concordato fallimentare il cui livello più probabile sarà tra il 50 e il 60 per cento del suo debito sovrano. Molte grandi banche francesi, tedesche, inglesi, americane, si troveranno in gravi difficoltà. Quanto alle nostre banche non risulta che detengano forti quantitativi di titoli greci ma in compenso hanno in portafoglio molti titoli delle banche francesi tedesche e americane coinvolte.

In queste condizioni ci vuole a Roma un governo capace di governare e di essere un interlocutore autorevole per l'Europa e per gli Usa. La supplenza del Quirinale, preziosa fino a quando Palazzo Chigi è di fatto disabitato, non potrebbe tuttavia guidare direttamente la barca in acque ancor più tempestose.

Ci vuole dunque un governo del Presidente sostenuto in Parlamento da tutti i senatori e i deputati che hanno a cuore l'interesse generale dello Stato.

Tra quanti sperano in un nuovo assetto della politica ci sono tuttavia alcuni che vagheggiano governi di centro-destra presieduti da Alfano o da Gianni Letta. Sembra che Casini vedrebbe di buon occhio soluzioni del genere. Soluzioni insensate: sostituire Berlusconi con Letta significa soltanto insediare a Palazzo Chigi un delegato; insediarvi Alfano per pilotare la barca nel mare in tempesta è addirittura un'ipotesi offensiva per il buon senso e per il senso comune.

Ma c'è anche chi preferirebbe le elezioni anticipate. Che Berlusconi sia uno di questi è comprensibile. Meno comprensibile è che ci siano nel novero anche economisti, banchieri e imprenditori. Elezioni anticipate significano Parlamento chiuso per almeno 60 giorni e il Paese guidato da un governo non solo fatiscente ma per di più in carica soltanto per l'ordinaria amministrazione. Un pascolo per i mercati.

Sergio Romano
sul Corriere della Sera di mercoledì scorso auspicava che Berlusconi annunciasse che non si ripresenterà più alle elezioni e rinuncerà a far politica, fissando la data elettorale al prossimo mese di marzo. Insomma qualcosa di simile a quanto ha fatto con successo Zapatero. Ma si tratta, gentile ambasciatore Romano, di un'ipotesi inesistente. Berlusconi (che non somiglia in nulla a Zapatero) non farà mai un annuncio del genere che comunque lo manterrebbe a Palazzo Chigi ancora sei mesi d'inferno. E quand'anche si convincesse, nessuno può garantire che un mentitore come lui manterrebbe la parola data.

In mancanza di altre soluzioni il Paese affonda nelle risse, nella generale sfiducia e nel totale isolamento internazionale. L'ultima testimonianza è venuta da Washington l'altro giorno, quando Obama, ringraziando i paesi che hanno contribuito a liberare la Libia da Gheddafi, li ha nominati tutti uno per uno, comprese la Norvegia, la Danimarca e la Lega Araba, con in testa ovviamente i francesi e gli inglesi.

Il solo Paese non nominato è stato il nostro che pure ha fornito basi aeree, comandi militari e la Marina. Ma l'Italia è da tempo confinata in un lazzaretto. Di chi sia la colpa lo si sa.

(25 settembre 2011)

Nessun commento: