mercoledì 21 settembre 2011

Se questa è flessibilità


di Pierfranco Pallizzetti

A giudizio unanime, se trasformata in legge, la manovra economica del governo produrrà l'effetto di rendere sempre più facile il licenziamento dei dipendenti da parte delle imprese. La chiamano "flessibilità". Un modo gentile per definire la precarizzazione; e te la raccontano come vantaggio competitivo per un sistema industriale in stagnazione da decenni quale il nostro, i cui nodi scorsoi strutturali sono stati ulteriormente stretti dall'attuale recessione. Poi ti spiegano in aggiunta che si tratterebbe della "ricetta tedesca" per lo sviluppo.

Al di là del fatto che dietro queste mosse si possono intuire antiche voglie di rivincita da parte di paleocraxiani incattiviti tipo Maurizio Sacconi, siamo proprio sicuri che questa del libero licenziamento sia l'unica flessibilità possibile e che corrisponda agli effettivi bisogni delle imprese? Ovviamente piccole, visto che parliamo dell'Italia.

DA QUALCHE TEMPO sto curando una ricerca sulle nostre PI e le risposte che ne ricavo suonano a smentita dell'intera impalcatura concettuale che ci viene proposta come panacea. Infatti, quanto rientra davvero nelle aspettative dei “padroncini” è una flessibilità di tutt'altro tipo: cioè quella di spostare i lavoratori tra diverse mansioni, a seconda delle esigenze aziendali, non di cacciarli come un costo improduttivo a ogni stormir di fronda del mercato. Si chiama job rotation; e la flessibilità che ne consegue è "interna" all'impresa, non “esterna”.

Guarda caso, il cuore del paradigma organizzativo tedesco correttamente inteso. Difatti, se nel 2005 il 37% dei suoi lavoratori era coinvolto in forme di rotazioni (contro il nostro 28%), nel 2010 questo era aumentato di dieci punti; a fronte di una riduzione italiana di almeno sei. Il modello internamente flessibile - infatti - punta sulla valorizzazione delle persone, intese come primaria risorsa aziendale. Del resto, un principio particolarmente radicato in quelle comunità poco gerarchicizzate e fluide che sono le imprese di taglia minima.

Nonostante questo, le varie leggi che dalle nostre parti si sono succedute in materia (dalla Treu alla Biagi) puntano esclusivamente a flessibilizzazioni esterne, andando esclusivamente incontro alle esigenze di quelle imprese Grandi che sono ormai in via di estinzione. Ma rispondono anche a un'altra esigenza: il presidio di scelte che collocano il nostro mix produttivo nei settori tradizionali a bassissimo tasso di innovazione.

MENTRE - come ci ricordavano recentemente Giuseppe Ciccarone e Enrico Saltari, economisti de La Sapienza - “in Germania, la flessibilità interna, trainata dalla contrattazione 'aziendale', ha favorito una specializzazione industriale concentrata sulle esportazioni ad alto valore aggiunto, su una maggiore crescita del capitale innovativo per addetto, sulla riorganizzazione dei luoghi di lavoro e sulla formazione quale elemento chiave della crescita”. Guarda caso, in Italia l'investimento di capitale per occupato continua a diminuire (già nel 2007 era almeno la metà di quello tedesco).

D’altro canto la logica di privilegiare la flessibilità interna su quella esterna non ci viene indicata solo dalla viva voce degli imprenditori singoli; ha trovato autorevole conferma nella recente ricerca di Confindustria svolta su cinquecento aziende associate che meglio hanno saputo reagire alla crisi (Progetto Focus Group). Ebbene, il messaggio che se ne ricava è chiaro: la capacità di competere discende direttamente dall’accumulo di conoscenze entro il perimetro dell’impresa. Ossia, l’accantonamento delle cosiddette “esternalizzazioni” dei decenni passati per concentrarsi sulla valorizzazione delle proprie risorse interne. Non certo motivabili con la minaccia della precarizzazione. Sempre che la questione di cui si discute sia lo sviluppo economico, non i cinici giochi di potere destinati a favorire i gruppi sociali che consentono alla Casta di mantenere i propri privilegi. Mentre si sta scivolando verso un inarrestabile sottosviluppo.

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