Il colonnello Muammar Gheddafi non fu soltanto il satrapo orientale, vestito di una uniforme operistica che si pavoneggiava a Roma ostentando il ritratto di Omar El Mukhtar, martire della resistenza anti-italiana, sul bavero della giacca. Prima di seppellirlo conviene ricordare che il tiranno era pur sempre un leader nazionale e che perseguì progetti diversi, quasi sempre folli, ma non privi di una loro perversa genialità.
Il primo Gheddafi imparò la politica sulle pagine del Mein Kampf di Gamal Abdel Nasser, pubblicato e diffuso nel mondo arabo sotto il titolo di «Filosofia della Rivoluzione». Scelse la carriera militare perché le forze armate potevano essere, come nel caso del leader egiziano, la piattaforma da cui balzare alla conquista del potere. Riunì intorno a sé un gruppo di giovani ufficiali perché così aveva fatto Nasser nel 1952. Volle che il primo atto della rivolta fosse la cacciata del re perché Idris, ai suoi occhi, era la versione libica dell’egiziano Farouk. Scelse per sé il grado di colonnello, dopo la vittoria, perché nessun altro rango militare gli sarebbe apparso più desiderabile di quello dell’adorato Nasser. Fu nazionalista e panarabista perché quelli erano i due cardini dell’ideologia con cui Nasser voleva promuovere la rinascita politica e morale del mondo arabo. Dovette comprendere rapidamente, tuttavia, che l’identità nazionale libica era molto più labile delle identità nazionali dell’Egitto, del Marocco, dell’Algeria e della Tunisia.
La sua prima mossa fu quella di utilizzare il periodo coloniale italiano per risvegliare un sentimento nazionale non ancora esistente. La sua seconda mossa fu il panarabismo, vale a dire la formula adottata dalle fusioni che Nasser aveva già tentato con
I suoi interessi e le sue ambizioni, nel frattempo, si spostavano dal mondo arabo all’Africa. Dopo avere sfrontatamente comperato con un diluvio di denaro la presidenza dell’Unione africana, cominciò a definire se stesso, senza un’ombra d’ironia, «re dell’Africa», anzi «re dei re dell’Africa», la carica che in passato era stata del «Negus Negast», imperatore d’Etiopia. In patria invece sosteneva di non avere cariche istituzionali e di essere semplicemente il «fratello leader», «guida verso l’era delle masse», «capo della rivoluzione». Per educare il suo popolo e rinnovare lo Stato scrisse un «libro verde» in cui erano esposti i princìpi politici ed economici della Terza Teoria Universale, una sorta di ultima profezia che avrebbe definitivamente seppellito quelle del capitalismo e del comunismo. Queste diverse incarnazioni, puntellate dai suoi generosi finanziamenti, lo avevano trasformato fisicamente.
Il giovane tenente del 1969, sobriamente vestito in una uniforme militare di taglio inglese, era diventato un nababbo orientale, avvolto in burnus sgargianti, spettinato, irsuto, mal rasato, regalmente capriccioso, protetto da un drappello di formose e robuste moschettiere. Le sue successive incarnazioni hanno procurato a Gheddafi uno stuolo di nemici.
Ma il suo scudo più efficace fu il peso degli interessi petroliferi nell’economia dei Paesi che lo odiavano. La svolta ebbe luogo quando lo stesso Gheddafi, assediato dalle sanzioni e consigliato forse dal figlio Sef El Islam, decise che la rinuncia al nucleare gli avrebbe permesso di rompere l’assedio. Comincia così una fase in cui il colonnello non cambia stile e non abbandona le sue stramberie, ma esce dall’isolamento e mette a segno qualche successo come la liberazione di uno degli attentatori di Lockerbie, detenuto in un carcere scozzese. Sembra che le sue colpe siano state dimenticate e che i suoi potenziali nemici siano disposti ad accogliere festosamente (qualcuno troppo festosamente) il ritorno all’ovile della pecora nera. Molti sperano di averlo ammansito e contano di fare con il suo Paese affari importanti.
Tutto cambia ancora una volta quando il suicidio di un giovane tunisino fa saltare il coperchio della pentola in cui bolle e ribolle la rabbia dei giovani arabi. La rivolta libica scoppia a Bengasi, vale a dire in quella parte del Paese dove esiste una vecchia fronda che Gheddafi non è mai riuscito a estirpare. Ma la protesta non sarebbe bastata a detronizzare il Raìs se alcuni dei suoi vecchi nemici non avessero deciso di sostenere i ribelli riducendo considerevolmente la forza della repressione. Qualcuno lo ha fatto per saldare vecchi conti, recitare la parte del paladino della democrazia araba, prenotare per sé una fetta considerevole della ricchezza petrolifera della Libia. E qualcuno, come l’Italia, lo ha fatto per non essere estromesso dalla partita finale. Se avesse potuto difendersi in un’aula di tribunale, Gheddafi avrebbe forse chiamato sul banco dei testimoni molti soci d’affari. Ma della sua umiliante fine politica e umana, se avesse conservato un briciolo di intelligenza, avrebbe potuto rimproverare soltanto se stesso.
Sergio Romano
21 ottobre 2011
4 commenti:
Se fosse stato intelligente non avrebbe stretto amicizia con b., ma tant'è!
Eppure il cannibalismo con il quale sono stati divulgati video e immagini sulla sua morte, l'ho trovato orrendo. Gli italiani, poi... con un presidente del consiglio che gli baciava le mani, avrebbero fatto meglio a stare zitti. Dare la notizia della morte avventa e non divulgare quelle orrende immagini in ogni TG e sui giornali, sventolandoli come fosse una nostra personale vittoria. Mi ha fatto pena, una pena infinita, non sono riuscita a guardare quelle immagini.
Perchè in questi tristi momenti l'Italia ha come capo del governo sempre un emerito traditore? Perchè è così che la vedo, al di là di ogni ragione economica, b. avrebbe dovuto spenderla qualche parola contro la guerra in Libia prima che si scatenasse. Almeno l'onore, almeno quello salvare agli occhi del mondo. Io me ne vergogno.
Io ho lo stomaco forte e ho guardato, foto, video,tutto. Mia moglie era particolarmente colpita e affermava che era eccessivo lo sbandierare ai quattro venti le immagini di un potente caduto nella polvere.
Io ho replicato che si trattava di un assassino che praticava lo sterminio di massa e tutti i tipi di violenza immaginabili, per cui non provavo sentimenti di pietà.
Però ci riflettevo e le ho detto che fatalmente ogni dittatore sembra non imparare nulla dalla storia. Finiscono così, in modo violento, uccisi senza remore. Era ancora vivo quand'è stato catturato, ma è durato poco, era in balìa dei ribelli, quell'uomo che si sentiva onnipotente, probabilmente per una grave patologia psicologica, adesso era nudo, senza difese.
Il 20enne che lo ha ucciso non se n'è reso conto, lui scaricava il suo odio, ma quel colpo di pistola cal. 9 ha posto fine al allo sgomento, al terrore del dittatore che fino all'ultimo si è illuso di poterla avere vinta e di diventare un martire agli occhi del suo popolo, è stato un atto di pietà involontaria. Di fronte alla morte è crollato e ha implorato: "Non sparate, non sparate" subito prima di morire, come un uomo qualsiasi, altro che martire.
Certo che davanti alla morte nessun uomo è diverso dall'altro, al limite in questi personaggi che, grazie al potere e al denaro, si sentono invincibili e intoccabili, in queste circostanze si rivelano codardi quali sono.
Così come è altrettanto vero che carnefici e vittime si alternano sull'altare della vendetta.
La pietà in quelli che prima erano vittime non dovrebbe mai venire meno, mai dimenticare di rimanere umani. Vinto il nemico, un gesto di pietà differenzia i suoi carnefici da lui.
Furono grandi quell'uomo e quella donna di cui ora mi sfugge il nome, quando sollevarono la gonna a Caretta Pettaci... nella vendetta erano rimasti umani, nobili.
Fu un prete.
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