di Nicola Tranfaglia
Se si va oltre gli slogan che percorrono in lungo e in largo la politica italiana e impediscono agli osservatori di comprendere le direzioni che prende, se non con molto ritardo, si arriva alla conclusione che
E CON LORO c’è un esponente ai suoi tempi noto della Lega degli anni novanta come Giancarlo Pagliarini che ha l’esperienza necessaria per guidare i nuovi leghisti a cercar di cambiare la politica del movimento. O meglio a ritornare, secondo quel che dicono e scrivono in un giornale che si pubblica a Milano e che si intitola Allarme speranza a Milano, alla Lega dei primi anni e (state attenti) al pensiero di Miglio che fu fino all’alleanza di Bossi con Silvio Berlusconi nel 1994 il teorico principe della Lega Nord e ne uscì proprio allora per quell’alleanza, fondando un effimero Partito Federalista di cui fu senatore nella tredicesima legislatura.
Ma chi era Gianfranco Miglio e in che senso i nuovi leghisti come Pagliarini e i suoi amici vogliono ritornare al giurista lombardo cui abbiamo accennato? Per capirlo, bisogna dire di più dell’azione e del pensiero di Miglio che fu uno studioso accademico della Università Cattolica di Milano, fino ad avvicinarsi alla Lega Nord e divenirne nel 1990 senatore come indipendente.
Per quattro anni lavorò per il partito ed elaborò un progetto di riforma federale fondato sul ruolo costituzionale assegnato all’autorità federale e a quella delle macro-regioni o cantoni (del Nord o Padania, del Centro o Etruria, del Sud o Mediterranea, oltre alle cinque regioni a statuto speciale ). La costituzione di Miglio prevedeva l’elezione di un governo direttoriale composto dai governatori delle tre macroregioni, da un rappresentante delle cinque regioni a statuto speciale e dal presidente federale. Quest’ultimo, eletto da tutti i cittadini in due tornate elettorali, avrebbe rappresentato l’unità del paese.
IL CONTRASTO tra Miglio e Bossi si espresse al congresso leghista di Assago quando il professore non fu d’accordo né di allearsi con Forza Italia (a loro volta Berlusconi e Fini avevano già fatto sapere che non avrebbero accettato Miglio come ministro delle Riforme che andò al leghista Francesco Speroni, inadatto a quel compito) né di entrare nel primo governo Berlusconi. Così si arrivò allo scontro diretto tra Miglio e il leader leghista che lasciò
Che le cose andassero così non c’era da stupirsi, conoscendo la storia italiana. Ma per Miglio la delusione fu grande e lo allontanò dal leghismo di Bossi e del “cerchio magico” fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2001.
Quel che si può dire oggi, parlando di Miglio è che il professore lombardo non aveva un’ideologia democratica (né rispettosa della costituzione repubblicana) ma si rifaceva ad esperienze europee e occidentali attente a stati confederali come quello svizzero o statunitense, e non può costituire oggi un punto di riferimento per chi si collochi invece su una linea di rinnovamento costituzionale (ma non eversiva) dei principi fondamentali della Carta del 1948. Certo l’esempio di Miglio escluderebbe l’alleanza costante e parassitaria con il berlusconismo della Lega Nord di Bossi che rischia di portarla a una sonora sconfitta elettorale. Si capisce così lo scontro mortale che può determinarsi tra i capi e i militanti dell’Unione Padana Alpina e il gruppo dirigente attuale della Lega Nord. Non faccio pronostici ma possiamo dire che il problema è aperto e potrebbe avere sviluppi inaspettati.
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