FRANCESCO
Dopo mesi e mesi di anticipazioni, indiscrezioni, annunci e smentite si è raggiunta la certezza che il processo per la strage di via D’Amelio - che costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta - va rifatto. Lo chiede
Scarpinato ha «dovuto» - glielo impone il senso della giustizia e del dovere che non gli manca - chiedere un nuovo giudizio per undici innocenti condannati per reati vari, alcuni dei quali da dieci anni in fase di espiazione dell’ergastolo. Ovviamente ha chiesto anche la sospensione della pena per tutti i detenuti. E’ certo, inoltre, che le porte del carcere si apriranno per altri finora rimasti liberi, protetti dell’enorme operazione di depistaggio che sulla strage Borsellino fu compiuta da organismi istituzionali e da singoli funzionari. Il grande inganno ha ruotato attorno alle dichiarazioni di due falsi pentiti, Scarantino e Candura, autoaccusatisi di aver rubato l’auto che servì per compiere l’attentato. E’ stato scoperto - seppure con grande ritardo - grazie alle rivelazioni di Gaspare Spatuzza, il pentito che ha esibito le prove di quanto afferma, quando racconta come e dove fu imbottita d’esplosivo la «126 bomba» e dove venne rubata. Potrà sembrare incredibile, ma le false rivelazioni di Scarantino e Candura - per la verità traballanti anche all’epoca dei processi - hanno resistito a tre gradi di giudizio, a riprova del fatto dell’esistenza di una specie di «doppio binario» nelle indagini sulla mafia che abbassa la soglia dell’onere della prova, senza alcun pianto greco di garantisti affranti, tranne che non vi sia il coinvolgimento di qualche potente.
Il procuratore Scarpinato ha imbastito un documento tecnico, scevro da analisi e considerazioni. E non poteva essere diversamente, dato che dovrà servire esclusivamente a riparare ad un errore grave. Ma dietro alla fredda certezza di porre rimedio all’ingiustizia c’è tutto un panorama alternativo che si può dedurre facilmente. Un nuovo canovaccio che non può non porsi come fine ultimo la ricerca del «movente» del clamoroso depistaggio. Sarà compito della Procura di Caltanissetta rassicurare i cittadini sul fatto che nessuna zona d’ombra rimarrà sull’atroce fine di Paolo Borsellino. E non solo, dal momento che i nuovi impulsi investigativi sembrano già aver riaperto il discorso anche sull’inchiesta (anch’essa risolta in Cassazione) sulla strage di Capaci. Solo un’indagine approfondita, affrontata senza timori reverenziali o ammiccamenti alla ragion di Stato, potrà riconciliare l’opinione pubblica e, soprattutto, i familiari delle vittime con le istituzioni. E si potrà impedire che Totò Riina continui a mandare i suoi messaggi a destra e a manca, forte dell’ambiguità che gli consente di dire, anche ai magistrati, che «Le stragi sono Cosa vostra». Chi ha pianificato le falsità di Scarantino e Candura? Chi ha mandato tra i piedi alla Procura di Caltanissetta quei due impostori? Chi ha falsificato i riscontri legittimando le bugie dei pentiti d’accatto?
Ma perché qualcuno avrebbe dovuto «deviare» le indagini? Le ultime rivelazioni dell’attendibile Spatuzza autorizzano il ragionevole sospetto che la versione Scarantino fosse una specie di toccasana per limitare l’inchiesta ad un movente minimalista della strage: mafia e basta. Il coinvolgimento della Cosa nostra di Brancaccio, dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, di per sé, allarga gli scenari a ipotesi più complesse e di natura più «economico-politica».
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