sabato 15 ottobre 2011

La crescita delle poltrone


MICHELE BRAMBILLA

Il governo è stato di parola: appena ottenuta la fiducia alla Camera, ha varato gli annunciati provvedimenti per la crescita. Crescono infatti le poltrone del governo medesimo: ce ne sono tre nuove, due da viceministro e una da sottosegretario. Inutile aggiungere «a chi» tali poltrone siano andate: i due nuovi viceministri sono deputati che avevano appena votato la fiducia.

Deputati che fino a qualche tempo fa non l’avrebbero votata; e cioè una ex finiana e un ex dipietrista. Quanto al nuovo sottosegretario, ha un passato nell’Udc. Le opposizioni gridano al mercimonio. Ma forse, più che questa distribuzione di «premi di risultato», colpisce la tempistica. Una volta ci si preoccupava non dico di salvare le apparenze, ma perlomeno di cercare di far passare tutto nel dimenticatoio. Si aspettava qualche mese, e poi si distribuivano le medaglie. Ieri invece la ricompensa è stata fulminea: voto, fiducia, Consiglio dei ministri e nuove nomine in meno di mezza giornata. Com’è possibile che Berlusconi e i suoi ministri non capiscano che una simile sollecitudine è anche una plateale ostentazione? Come non tenere conto delle reazioni che un gesto del genere provoca nella gente comune? Ma l’impressione è che della gente comune, e quindi del Paese, non ci si preoccupi più. Pensino quello che vogliono, chi se ne importa.

Anche l’esultanza da stadio dei parlamentari della maggioranza dà il senso di un distacco fra il Paese e il Palazzo. Certo il governo ha ottenuto la fiducia, è legittimato a continuare e ha tutti i motivi per esserne rinfrancato. Ma che cosa ci sia da festeggiare, non lo si capisce.

Di certo non lo capiscono gli italiani, messi a dura prova - o come minimo spaventati - da una crisi finanziaria che non ha precedenti negli ultimi cent’anni. Le Borse crollano, il nostro debito viene declassato, si parla di default: e di fronte a tutto questo la classe politica che cosa fa? In altri Paesi questa temperie ha portato maggioranza e opposizione a collaborare con lo stesso spirito con cui si collabora quando c’è una guerra o un terremoto. Qui da noi, di un fronte comune contro la crisi non è neppure il caso di parlare. Almeno fosse unito il governo. Invece abbiamo un ministro dell’Economia pubblicamente sfiduciato da metà, per non dire due terzi, del suo stesso partito; opinioni diverse su pensioni, condono, patrimoniale, tasse; malpancisti vari nel Pdl e nella Lega.

È evidente che il centrodestra ha necessità di ripensarsi. Ma chiunque al suo interno ponga la questione è scomunicato come un traditore, o un ingrato, o un ambizioso in cerca di gloria personale. Era già successo a Casini, e poi a Fini: ora succede a Formigoni, a Pisanu, a Scajola, a Maroni. E in realtà sono poi molti altri ancora i parlamentari e i ministri che in privato dicono che così non si può più andare avanti, ma che in pubblico non hanno il coraggio di riconoscere che la barca affonda.

E così si rimane aggrappati, più che alla difesa del centrodestra (non parliamo neppure del Paese) a quella del suo premier, come se una parte politica dovesse coincidere in eterno con una sola persona. Si rimane aggrappati a qualche voto in più, da ricompensare con qualche inutile poltrona. Chiusi in un bunker mentale impermeabile agli umori degli italiani, elettori di centrodestra compresi.

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