FEDERICO GEREMICCA
Silvio Berlusconi e la sua maggioranza esultano per la cinquantatreesima fiducia incassata, che stavolta ha significato davvero portare a casa la pelle; Pier Luigi Bersani e le opposizioni parlamentari, invece, sono soddisfatti per aver dimostrato al Paese che il governo è debole ogni giorno di più. E così, alla fine di una giornata nient’affatto edificante, può perfino accadere che tutti - o quasi tutti - abbiano un buon motivo per festeggiare. È qualcosa di diverso e di peggio dell’eterno «chi si contenta gode»: è il prodotto di un ormai lungo ed estenuante braccio di ferro tra due debolezze che da un anno e mezzo, di fatto, tengono praticamente in ostaggio il Paese.
Quel che è accaduto ieri nell’aula di Montecitorio assediata da Indignati, Draghi Ribelli e Popolo viola, non ha bisogno di molte spiegazioni, trattandosi del triste ed identico copione che va in scena dall’aprile dell’anno scorso: da quando, cioè, Fini e la sua pattuglia abbandonarono Silvio Berlusconi lasciandolo in balia di un drappello di cosiddetti «responsabili». Da allora, ogni voto di fiducia è al cardiopalma, preceduto da ricatti e minacce, e seguito da ringraziamenti e prebende ai dubbiosi e agli incerti: ieri, con la nomina fulminea di due nuovi sottosegretari e di due viceministri, il ringraziamento è stato tempestivo come mai. Non si è badato nemmeno a salvare l’apparenza: ma il punto, ormai, non è più nemmeno questo.
Quel che infatti comincia seriamente a preoccupare - anche per le prospettive che apre: altri mesi di paralisi in attesa di elezioni la prossima primavera - è il totale smarrimento del bandolo della matassa, l’assenza di qualunque strategia politica, nella convinzione che prove muscolari - da una parte - o semplice attesa della consunzione del nemico - dall’altra - siano sufficienti ad assolvere ed a legittimare i rispettivi ruoli. Il drammatico declino economico - e ormai perfino etico - lungo il quale si è incamminato il Paese, dovrebbe dimostrare che non è così: ma le locomotive sono lanciate l’una contro l’altra, e fermarle si sta rivelando ormai impossibile.
Un po’ di «politica all’antica» (detto senza nostalgia) e un briciolo di lungimiranza, avrebbero forse fatto intendere a Berlusconi, già un anno fa, che la via del governo del Paese - non della sopravvivenza: perché in quella è riuscito - non poteva passare da un patto/ricatto con gruppi di transfughi in cerca di fortuna. E’ a quell’epoca che andava offerta un’intesa al Terzo Polo di Casini, un patto proposto oggi in maniera affannosa e non credibile. Non averlo fatto ha condotto il governo sulle secche che lo bloccano da mesi. Oggi una soluzione non appare più possibile: e quel che per Berlusconi è peggio, è che questa sorta di muoia Sansone con tutti i filistei non ha solo paralizzato l’esecutivo in un momento difficilissimo, ma ha anche - secondo qualunque sondaggio - compromesso ogni possibilità di alleanza e di vittoria del centrodestra alle prossime elezioni.
Fatte molte differenze (e la fondamentale attiene alle diverse responsabilità di chi governa e di chi è all’opposizione) anche il Pd - perno dell’alternativa - dovrebbe interrogarsi circa il fallimento della propria strategia (caduta del governo Berlusconi a vantaggio di un esecutivo di responsabilità nazionale). Considerata l’aria che tira - e non da oggi - non ha senso sorprendersi delle fiducie incassate dal premier, se l’alternativa è il puro e semplice scioglimento delle Camere: i fatti continuano a dimostrare (ieri qualche «responsabile» l’ha perfino detto in chiaro) che molti parlamentari non intendono «tornare a casa», e che difenderanno stipendio e vitalizio con le unghie e con i denti.
Come mai e perché - in una legislatura che ha visto scissioni, rotture e nascita di nuovi gruppi parlamentari - il tandem Bersani-Casini non è riuscito a catalizzare consensi e voti nelle aule parlamentari, così da render credibile (e possibile) la nascita di un governo diverso, che costituisse per incerti e dubbiosi un’alternativa al bivio «o Berlusconi o il voto»? Cos’è che ha frenato un’iniziativa politica capace di sbloccare la situazione, offrendo perfino qualche margine d’azione in più allo stesso Quirinale?
Le risposte possono essere molte, e vanno cercate. Un partito-calamita come vuol essere il Pd, infatti, non può rassegnarsi a questa apparente incapacità di costruire e allargare le sue alleanze. E’ un tema ineludibile, visto che condiziona anche linea e strategia con le quali affrontare le future elezioni. Se la storia insegna qualcosa, verrebbe da dire che puntare solo sulla crescente debolezza di Silvio Berlusconi, potrebbe essere fatale. Come rischiò di esserlo nelle elezioni del 2006, considerate una passeggiata e vinte, alla fine, per la miseria di 20 mila voti...
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