martedì 25 ottobre 2011

"Torture sui detenuti" Asti, 5 agenti a processo


RAPHAËL ZANOTTI

Dietro l’opulenta Asti dalle cento torri, dietro la ricca provincia del vino, dei tartufi e della poesia si nasconde quella che l’avvocato Angelo Ginisi chiama «la piccola Abu Ghraib italiana». Strada Quarto Inferiore 266, casa circondariale. Cinque chilometri dal centro eppure lontana mille miglia dal selciato pittoresco della piccola cittadina di provincia. Forse lontana mille miglia anche dall’Italia di Cesare Beccaria e dal carcere inteso come luogo di rieducazione e reinserimento. È in questa struttura di cemento e grate, nell’impenetrabile braccio dell’isolamento, che si è forse consumata una delle vergogne d’Italia: due detenuti umiliati e pestati per settimane, vessati e torturati da una squadretta punitiva formata da agenti della polizia penitenziaria.

Una storia che, a sentire le testimonianze, sembra far parte di un’altra epoca, di un altro luogo. Nudi. Lasciati per giorni in una cella senza vetri alle finestre in pieno inverno. Senz’acqua corrente, senza un bagno agibile. Una rete metallica priva di materasso, lenzuola o coperte come giaciglio. Tenuti per giorni a pane e acqua. E ripetutamente pestati, fino a tre volte al giorno, fino allo sfinimento. «Non mi facevano dormire racconta oggi Andrea Cirino, 33 anni, una delle due presunte vittime dei pestaggi - Faceva così freddo che ero costretto a stare tutta la notte per terra, attaccato a un piccolo termosifone. Non appena mi addormentavo, alzano lo spioncino e gridavano: “Stai sveglio, bastardo!”. Poi arrivavano i passi con gli anfibi e allora capivo: mi rannicchiavo. Loro entravano in sette od otto nella stanza e partivano calci, pugni, schiaffi. Speravo solo che la raffica finisse, ma non finiva mai».

La stessa sorte subiva, secondo il racconto, anche Claudio Renne, 37 anni di Novara. A lui, addirittura, un agente avrebbe staccato a mani nude il codino che portava. Violenze e umiliazioni ripetute perché i due, qualche giorno prima, avevano aggredito un agente della penitenziaria. Questo racconta l’indagine di due sostituti procuratori, Francesco Giannone e Chiara Blanc, che hanno chiesto e ottenuto il processo per
cinque agenti della polizia penitenziaria (altri sette erano stati prosciolti a luglio scorso). Dopodomani ad Asti comincerà il processo ma forse non vedrà mai la fine visto che i fatti risalgono al 2004 e hanno sonnecchiato per sette anni, incagliati in chissà quale anfratto degli uffici giudiziari, prima di tornare fuori, alla luce del sole, a pochi mesi dalla prescrizione.

Poco male per la difesa degli agenti che ha sempre ritenuto quest’indagine un’enorme montatura. «Accuse totalmente infondate e per noi calunniose» sostiene veemente l’avvocato Aldo Mirate. Non così per la parte civile, l’avvocato Ginisi per Cirino e gli avvocati Mauro Caliendo e Roberto Caranzano per Renne. «Gli atti sono incontrovertibili sostengono - E non ci sono solo le testimonianze dei detenuti, ma anche quelle di ex agenti della Penitenziaria e intercettazioni telefoniche a sostenere l’accusa». Ad Asti, la storia della piccola Abu Ghraib, mette imbarazzo. Dal carcere parlano di «vicenda delicata, da chiarire». Gli agenti della Penitenziaria se ne sentono ostaggio: «
Da anni abbiamo la sensazione di essere lasciati soli, abbiamo paura anche solo a difenderci se veniamo assaliti» racconta uno di loro.

Il segretario generale l’Osapp, Leo Beneduci, rinnovando fiducia nell’autorità giudiziaria e nei colleghi, dichiara: «Aborriamo la violenza e se ci sono mele marce vanno isolate, auspichiamo che in sede giudiziaria si chiariscano se ci sono stati episodi di violenza». Su tutto aleggia un clima teso. Forse lo stesso che si viveva all’epoca, quando a tirar fuori la storia di Cirino e Renne non furono loro stessi, non furono i compagni di cella e nemmeno agenti della penitenziaria. Fu un’assistente carceraria riuscita a entrare nel braccio dell’isolamento, area che non è nemmeno videosorvegliata. Vedendo Renne con il volto tumefatto, chiamò l’ambulanza e lo fece ricoverare. Fece una segnalazione e partì l’indagine. In pochi mesi il commissario di polizia Antonella Reggio raccolse numerose testimonianze, comprese quelle di Cirino a Renne che all’inizio negarono.

Al termine di quell’inchiesta, il quadro raccolto dal commissario era, se possibile, ancora più inquietante di quello di oggi. Non solo detenuti e agenti sapevano, ma anche l’allora direttore del carcere
Domenico Minervini (oggi ad Aosta). Scrive il commissario: «Nonostante fosse stato messo al corrente di quanto accadeva all’interno dell’isolamento, non prendeva ulteriori provvedimenti al fine di salvaguardare l’incolumità dei detenuti». Ce n’era anche per i medici del carcere che, nei loro verbali, scrivevano di aver trovato Cirino e Renne in buona salute. Né il direttore né i medici, tuttavia, risultano indagati. Per loro, Asti, può continuare a essere la città delle cento torri, del vino, dei tartufi e della poesia. Lontana mille miglia da Abu Ghraib.

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