domenica 11 dicembre 2011

Casta da esportazione: i diplomatici italiani guadagnano più di Merkel e Sarkozy


Thomas Mackinson

Doppi stipendi, svariati privilegi e clientelismo: ambasciatori e funzionari del Belpaese all'estero pesano sul bilancio dello Stato per 1,7 miliardi di euro l'anno. E per risparmiare si tagliano le sedi e i fondi sulla cooperazione

L’ambasciatore italiano a Berlino guadagna il doppio della cancelliera tedesca. Lui si chiama Michele Valensise ed è l’ultimo ambasciatore nominato dal governo Berlusconi. Al pari di molti colleghi, dallo Stato Italiano percepisce circa 20mila euro netti al mese e governa una sede diplomatica con 58 persone. Lei si chiama Angela Merkel e dallo Stato tedesco riceve 9.072,43 netti per governare una nazione con 80 milioni di cittadini, la terza potenza economica del mondo. Lui 20mila e lei 9. Lui viene dall’Italia, il Paese dei doppi stipendi e dei privilegi che – poco se ne parla – proietta nel mondo il suo sistema di casta e lo propaga attraverso una fitta rete diplomatico-consolare, uffici di rappresentanza e istituti di cultura e lingua italiana all’estero.

IN ARRIVO UNA COMMISSIONE D’INCHIESTA?

Per fare chiarezza sui costi di questo carrozzone, un anno fa è partita un’indagine conoscitiva in Senato che si è allargata alla Camera e, alla luce del quadro che emerge e della ritrosia da parte del Ministero degli Affari esteri a fornire dettagli, potrebbe evolvere presto in commissione di inchiesta. “Questo è un mondo in parte sconosciuto al Parlamento nel quale si annidano antichi privilegi, inefficienze, sprechi, nomine poco trasparenti”, denuncia il senatore Pd Claudio Micheloni, segretario della Commissione Esteri al Senato: “Ancora non sappiamo chi nomina chi, perché diamo tanti soldi a taluni e non ad altri. Ci sono situazioni oltre il limite come le retribuzioni per incarichi da autista che arrivano a seimila euro al mese”. Certo è invece il costo del carrozzone italiano nel mondo pari a 1,7 miliardi di euro che pesa per lo 0,1 per cento del Pil.

CON I RECENTI TAGLI SI RISPARMIA POCO

Il governo uscente ha affrontato la questione a suo modo. Senza intaccare i privilegi, ha optato per una razionalizzazione della rete consolare e ha disposto la chiusura di numerose agenzie e sportelli in Albania, Australia, Croazia, Egitto, Francia, Germania, Paesi Bassi, Slovenia, Svizzera, Stati Uniti e Romania. Sicuramente all’Italia degli ultimi vent’anni era piaciuto abbondare: tra ambasciate (126), rappresentanze permanenti (9), delegazioni diplomatiche speciali (1), uffici consolari (97), istituti di cultura (92) il nostro Paese ha ben 325 sedi estere, più dei cinquanta Stati Uniti messi insieme (271), più di Russia (309), Regno Unito (261) e Germania (230). Il problema, contesta però il centrosinistra, non è tagliare le sedi: “Questa scelta, anzi, indebolisce la rete di rappresentanza e non mette in discussione i veri costi eccessivi a carico del ministero degli Esteri”, sostiene Franco Narducci (Pd), vicepresidente della Commissione Esteri alla Camera. Un esempio arriva direttamente dall’annuario statistico del Ministero degli Affari Esteri (MAE): il nostro paese spende due milioni di euro più della Spagna che pure conta 21 sedi in meno.

In effetti il risparmio quantificato dai tagli di sede è poca cosa, ammonta a non più di 5 milioni e non modifica la struttura della spesa per il personale che, per quantità e trattamento economico, resta un’anomalia tutta italiana. Per contrastarla si stratificano disegni di legge che ne chiedono la modifica. L’ultimo è stato presentato, poche settimane fa, dal capogruppo della Lega alla Camera Marco Reguzzoni, che ha chiesto di ridurre le retribuzione dei diplomatici italiani, “i più lautamente retribuiti tra i colleghi europei ed extraeuropei”. Sul fronte Pd analoga proposta è stata quella dell’onorevole Marco Fedi, sempre con l’intenzione di mettere un freno a una spesa fuori controllo.

DENTRO L’ANOMALIA TUTTA ITALIANA

Senza fare nomi e usando la base di calcolo delle tabelle ministeriali, si desume che un ambasciatore italiano guadagna circa 300mila euro esentasse, più il fitto per la residenza, più la macchina di servizio, più maggiorazioni se con moglie e figli a carico, più indennità di prima sistemazione, spese di trasloco, stipendio metropolitano che continua a essere corrisposto. Con il cumulo di questi benefici facilmente conviene essere un diplomatico italiano piuttosto che il presidente francese Nicolas Sarkozy, che al mese percepisce 6.600 euro, o il presidente russo Medvedev che ne prende 4.860.

Il problema italiano, però, non deriva tanto dallo stipendio dei singoli diplomatici, quanto dal fatto che di questo trattamento “extra large” benefici tutta la base della piramide, cioè quel folto gruppo di dipendenti in missione che va dal funzionario al contabile, dal segretario all’autista. Un esercito che conta 906 diplomatici (di cui 522 all’estero e 387 in sede), 41 dirigenti, 3.457 addetti alle aree funzionali, 2.583 come personale di ruolo e 971 di ruolo presso altre amministrazioni. Con una perla tipicamente italiana: quando il personale di ruolo – diplomatico e non – è all’estero, incassa regolarmente sia la retribuzione per la missione, sia lo stipendio “metropolitano”, proprio come fosse a Roma. E questo trattamento vale per tutti i 4.752 dipendenti di ruolo (di cui 2.853 in missione all’estero, 1.989 nella sede centrale a Roma). Un privilegio per un Paese dove è sempre più difficile avere anche uno solo stipendio.

E la lista non è finita. Perché ci sono anche 2.400 dipendenti assunti a contratto, di cui 800 a contratto italiano ed il resto con contratto stipulato secondo la legge e le tariffe del Paese di accoglienza. L’anomalia italiana deriva dal fatto che più della metà di tutto il personale in servizio all’estero è mandato dall’Italia (circa il 60 per cento) ed il restante 40 per cento viene assunto e pagato con contratti e tariffe locali. Questo rapporto è invertito rispetto a quanto fanno tutti gli altri Paesi, che, al contrario, con punte fino all’80 per cento, privilegiano l’utilizzo di personale locale presso le loro strutture estere (nella misura dell’80 per cento), inviando in missione solo il 20 per cento dei propri organici. Questa inversione di tendenza del tutto italiana produce il doppio risultato di far lievitare i costi del personale e creare situazioni paradossali, spesso difficili da gestire, al limite del conflitto. Ci sono lavoratori che fanno la stessa cosa nello stesso posto ma uno guadagna meno del 10 per cento dell’altro. Succede all’ambasciata di New Delhi. Identica mansione, due stipendi diversi. Uno da fame, l’altro d’oro. Gli stipendi lordi corrisposti a un impiegato a contratto con mansioni esecutive di cittadinanza indiana è di 6mila euro lordi l’anno, contro i 54mila lordi percepiti per la stessa mansione dall’impiegato di nazionalità italiana assunto localmente e gli 80.000 euro (esentasse) di quello mandato in missione da Roma.

IL CASO DEGLI ISTITUTI DI CULTURA ALL’ESTERO

Un altro centro di spesa fuori controllo è quello degli Istituti di cultura italiani all’estero e delle istituzioni scolastiche, ben 383 centri, spesso utilizzati come parcheggi d’oro a vantaggio di persone nominate per via politica. Raro vedere in Italia un insegnante liceale che guadagna 54mila euro l’anno. Ma se è mandato all’estero, grazie al cumulo dei due stipendi, è possibile. E questo riguarda 430 unità di personale di ruolo, 74 dirigenti scolastici e 153 dipendenti APC (area promozione culturale). In tutto 657 persone per un parco di alunni pari a 31mila ragazzi ed un numero imprecisato di utenti presso gli 89 istituti italiani di cultura. Una situazione insostenibile.

Il senatore Micheloni ha preparato emendamenti alle prossime iniziative economiche del nuovo governo per rimodulare la spesa di tutto il comparto. Il primo propone proprio di richiamare gli insegnanti di ruolo che abbiamo mandato nel mondo perché siano reinseriti a costo zero nella scuola italiana ottenendo un risparmio dalle spese per indennizzo pari 18,5 milioni di euro. “Soldi che possono essere riallocati, tra gli altri, agli enti gestori dei corsi di italiano che usano personale in loco”. Il secondo prevede la riduzione del 15 per cento dell’ISE (Indennità di Servizio all’Estero) dei diplomatici e amministrativi di ruolo inviati all’estero, con un risparmio di 54 milioni di euro da destinare alla cooperazione, allo sviluppo e riduzione del debito. “Certo vorremmo anche sapere chi sono tutti questi funzionari, segretari, tecnici, contabili e insegnanti. E sapere secondo quali criteri di selezione sono arrivati a quelle posizioni”, lamenta il senatore.

IL RUOLO DELLA POLITICA

Si sa, invece, come arrivino al vertice i direttori degli Istituti italiani di cultura, veri e propri plenipotenziari con stipendi dai variabili da 14-15mila euro netti al mese a seconda della sede di destinazione. Perché accanto a funzionari di carriera che arrivano per meriti sul campo, la politica ci mette lo zampino. La Legge 401 del 1990 (art. 14 comma 6) permette al potente di turno di collocare ben dieci “personalità di chiara fama” nelle dieci più prestigiose capitali del pianeta. E qui abbondano le parentopoli e le amicizie, gli scambi di favore e i collocamenti in quota ai partiti.

Poi ci sono i “lettori” universitari, cioé i docenti di ruolo del Miur che vengono assegnati per un quinquennio nei dipartimenti di italianistica (ove questi esistano) di alcune università straniere. Sono 257 professori e godono di privilegi diplomatici e stipendi spesso superiori a quello di un docente universitario con cattedra di italianistica. Restano in carica 5 anni rinnovabili a scadenza.

Porre fine a questa situazione non è facile, perché occorre una riforma complessiva del sistema che si attende da circa dieci anni. Intanto però vengono fatti tagli dove si può. Spesso a carico di voci importanti come l’aiuto allo sviluppo. Ogni Paese contribuisce con una quota di spesa e l’Italia nell’ultimo anno è stata l’unica nazione a scendere passando dallo 0,20 per cento sul reddito nazionale lordo allo 0,15. Tutti gli altri salgono: la Gran Bretagna passa da 0,52 allo 0,56, la Spagna dallo 0,32 allo 0,43, gli Usa dallo 0,18 allo 0,21. Insomma, senza intaccare il costoso sistema dei privilegi si contrae la spesa che ci proietta in Europa e nel mondo tagliando sedi e disinvestendo sulla cooperazione.

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