L’EX MINISTRO DEL
WELFARE CHIEDE PIÙ AMMORTIZZATORI SOCIALI, ALTRO CHE FLESSIBILITÀ E NUOVI
CONTRATTI
di Luca Telese
Con l'Italia in piena recessione l'articolo 18
non può essere toccato. Siamo alle soglie di un drammatico choc occupazionale:
le tutele vanno aumentate, non certo ridotte”. Visto che è un sabaudo rigoroso
e antiretorico come Cesare Damiano, a parlare, un ex ministro del Welfare, non
si può che trarre un motivo di inquietudine da questo allarme con cui il
deputato del Pd apre il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro.
Onorevole
Damiano, perché parte da una visione apocalittica?
Siamo in recessione. Abbiamo speso 3 miliardi
di ore di cassa integrazione dal 2008
a oggi. Abbiamo 2 milioni e 700 mila persone disoccupate
che hanno rinunciato a trovare un lavoro, mezzo milione in cassa integrazione,
2 milioni e 100 mila disoccupati, 3 milioni in nero. Secondo Confindustria 800
mila si preparano a diventare nuovi disoccupa-ti.
Proprio
per questo il governo sostiene che la riforma della flex security potrebbe
migliorare il quadro.
Se l’idea è aumentare le protezioni per
fronteggiare la crisi, non solo sono d’accordo, ma la sosterremo.
I
teorici del modello danese dicono che per realizzarlo la licenziabilità è una
condizione irrinunciabile.
Mi ascolti bene: consideriamo del tutto fuori
luogo un nuovo attacco all'articolo 18.
Questa
è la sua posizione personale o un plurale collettivo che indica il suo partito?
Fino a prova contraria è la posizione di tutto
il Pd, votata a grandissima maggioranza l'estate scorsa.
Ma
questo dibattito allora non era all'orizzonte?
Quel documento era il prodotto di un dibattito
di due anni in cui questi problemi sono stati affrontati con serietà dal Pd.
Il
principale teorico della flex security, Pietro Ichino è un suo collega di
partito.
Che fa benissimo a sostenere le idee di cui è convinto.
Ma che, con altrettanta onestà, non può pretendere di far diventare queste
posizioni personali quelle di un intero partito.
Ichino
sostiene che se gli imprenditori avranno la possibilità di licenziare per
motivi economici assumeranno di più.
Non credo alla favola della licenziabilità che
produce lavoro.
Mi
spieghi perché.
Oggi l'articolo 18 non si applica alle imprese
con meno di 16 dipendenti. Che sono il 90 per cento. E l'80 per cento delle
nuove assunzioni é costituito da contratti precari. Vuol dire che anche chi non
ha l'articolo 18 ricorre a contratti precari. E sa perché?
Me lo
spieghi lei.
Il primo motivo per cui si ricorre a forme di
precarietà non è contrattuale ma economico. Assumere a tempo indeterminato
costa di più. Quindi si deve agire sulla riduzione del costo del lavoro per le
imprese, non certo sulla possibilità di mettere fuori organico i suoi
dipendenti
Esempio?
Il primo passo deve essere alzare il costo dei
contratti precari e diminuire quello dei dipendenti fissi. Noto con
piacere che uno dei provvedimenti del governo sull'Irpef, concede uno sgravio
per i neo assunti che va in questa direzione.
Che
altro?
Allargare il periodo di prova a tre anni. Mi
pare che sia già tanto, per chi aspetta la stabilizzazione.
Si
dice: un buon imprenditore non ha motivo per privarsi dei suoi lavoratori.
Ma in tempo di crisi il problema di abbattere
i costi diventa la prima condizione da rispettare per salvarsi. Le faccio un
esempio sui cassaintegrati. Chi è in cassa resta in organico e può tornare al
lavoro se la crisi si attenua. Se scatta la licenziabilità economica, invece,
la logica vuole che vengano messi fuori per primi: in Italia sono 500 mila.
Ma i
teorici della flex security dicono: una grande ingiustizia esiste già e divide
chi ha garanzie da chi ne è privo.
È un ragionamento che parte da una premessa
giusta, ma di cui non mi convince la conclusione.
Perché?
Questo fantomatico contratto unico non sarebbe
unico affatto. Resterebbero quelli con i vecchi contratti e poi anche i nuovi
continuerebbero ad avere contratti di lavoro interinale, a chiamata o tempo
determinato.
La
riforma delle pensioni ha complicato le cose?
Le faccio un solo esempio, quello dei
lavoratori “esodati”. Il termine è orribile, ma indica coloro che sono usciti
dalle imprese licenziandosi con uno scivolo – tipo un anno di stipendio – che
permettesse di arrivare alla pensione.
E
adesso sono finiti nel limbo.
Peggio. Non possono andare in pensione, perché
mancano loro tre o quattro anni. Ma non possono tornare indietro.
Quanti
sono?
Il ministero sta facendo i calcoli. Ma sono
tanti. E per assisterli bisogna inventare nuove tutele. Avevamo preparato un
emendamento che non è entrato nella manovra, però abbiamo presentato un ordine
del giorno firmato da tutti i partiti di maggioranza perché sia reintrodotto.
Sono
quei lavoratori che rientravano nella famosa “quota Damiano”, 96 anni fra età
anagrafica e anzianità lavorativa.
Già, la famosa quota 96: quando l'abbiamo
varata mi hanno fatto i cortei contro. Adesso viene considerata un insopportabile
privilegio.
Quale
dovrebbe essere dunque la base di partenza del governo per questa riforma del
lavoro?
Stanziare fondi ingenti per nuovi
ammortizzatori sociali perché sta arrivando una nuova tempesta e ne abbiamo
bisogno per evitare che il Paese vada socialmente a fondo.
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