sabato 17 dicembre 2011

E ORA L’ARTICOLO 18





Fatta la manovra, il governo vuol riformare il lavoro Ma per il progetto Ichino mancano voti e soldi
di Stefano Feltri
   Chiusa la manovra, tocca al mercato del lavoro. Fallite le liberalizzazioni, sperando di evitare il trauma di un altro flop, il governo Monti passa al prossimo punto in agenda. Che sia il lavoro il punto più delicato del mandato dei tecnici lo ha chiarito Pier Luigi Bersani, segretario del Pd: “Sono sicuro che quando si parla di riformare il mercato del lavoro non si parla tanto di articolo 18, ma di chi perde il lavoro in età avanzata. L’articolo 18 non è la questione”. Non sarà la questione, ma di certo è il tabù: se si tocca quello, il tentativo di Bersani di compattare il Pd su posizioni da sempre minoritarie nel partito, quelle“riformiste”, potrebbe sfociare in un disastro. Magari con scissioni e forse la fine dell’esperienza Monti. “Il nostro orizzonte è l’appuntamento elettorale”, ha detto Bersani: contano più gli elettori dei tecnici. I colloqui informali, preliminari, con il governo sono in corso da giorni.
   Gli stipendi dei pensionandi
   Il dossier che ha in mano il ministro del Welfare Elsa Fornero è più complesso ancora del beauty contest sulle frequenze affidato a Corrado Passera. Qualcosa bisogna fare, per due ragioni: la recessione, se sono giuste le stime della Confindustria, nel 2012 sarà molto più grave del previsto: -1,6 per cento del Pil contro il -0,5 stimato dal governo Berlusconi . Quindi serve un segnale per la crescita, e una riforma del mercato del lavoro è quello che chiedono i mercati e l’Unione europea. La seconda ragione l’ha spiegata il ministro Fornero, in audizione alla Camera: finora le imprese cercavano di liberarsi perfino dei 50enni perché troppo costosi, dopo la riforma delle pensioni bisogna convincerle a tenerli fino a 67 anni. Quindi serve un necessario intervento sulla “curva retributiva”, ha detto la Fornero. Tradotto: si studieranno dei contratti per i lavoratori a fine carriera più simili a quelli dei giovani, flessibili e a salario ridotto.
   Ma non è questa la parte più traumatica. Fin dai primi giorni, è stato chiaro che il governo voleva seguire la linea di riforma indicata dal senatore del Pd e giuslavorista Pietro Ichino, che finora si è tradotta in disegni di legge arenati in Parlamento.
   I costi del modello Ichino
   Il “modello Ichino” è questo: tutti i lavoratori vengono assunti a tempo indeterminato, con un periodo di prova di sei mesi in cui non si applica l’articolo 18 che obbliga le imprese a riassumere i lavoratori licenziati senza giusta causa, pagando loro pesanti indennizzi. Dopo il periodo di 6 mesi, scattano le vecchie tutele, con una differenza: l’impresa può licenziare anche per motivi economici e organizzativi, pagando un’indennità che cresce con l’anzianità di servizio. Più tempo hai lavorato, più costoso sarà per l’impresa allontanarti. Niente cambia per gli attuali lavoratori a tempo indeterminato tutelati dall’articolo 18 (che vale solo nelle imprese con più di 15 dipendenti).
   Monti ha già annunciato una “riforma del mercato del lavoro per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di giovani e donne, le due grandi risorse sprecate del nostro Paese”. Ma, per quanto bene possa fare alla crescita, ci sono dei costi iniziali non indifferenti. Nel progetto di Ichino i lavoratori licenziati possono contare su un’assicurazione che, in caso di perdita del lavoro, garantisce fino a tre anni di retribuzione, il primo anno al 90 per cento dello stipendio e poi al 70. Questa assicurazione dovrebbe essere a carico delle imprese, ma al ministero stanno facendo due conti: alzare adesso il cuneo fiscale, cioè la differenza tra il costo di un lavoratore all’azienda e il suo salario netto in busta paga, sarebbe un disastro, scoraggerebbe le poche assunzioni previste. Ma introdurre incentivi pubblici per ridurre questo extra costo è poco proponibile, visto che i soldi da spendere sono pochissimi.
   Il rischio dello scontro
   Bersani e il Pd già temono il bis del 1996: la riforma senza gli ammortizzatori, cioè più precarietà ma niente garanzie. E quindi stanno facendo pressione sulla Fornero perché qualunque discorso sul mercato del lavoro parta da una riforma degli ammortizzatori sociali, a cominciare dalla cassa integrazione. Interventi che valgono 7-8 miliardi. Oltre che con i partiti, il governo Monti ha qualche problema al suo interno. Il ministro Fornero è esperta di pensioni, meno di mercato del lavoro. Quello è il campo di Michel Martone, giuslavorista nominato viceministro, ma che ancora non ha ricevuto le deleghe. Che sono una questione delicata, sia per i rapporti di forza dentro l’esecutivo che per la relazione con i sindacati . La Fornero non può appaltare completamente una riforma così delicata al suo vice che è visto soprattutto dalla Cgil come troppo riformista per essere un interlocutore.
   Martone, per ora, non commenta.
   Ma chi frequenta i corridoi del ministero del Welfare sostiene che, comunque finisca la spartizione delle deleghe, sia la Fornero sia Martone non hanno alcun interesse ad andare allo scontro frontale con Susanna Camusso e l’ala sinistra del Pd, si procederà con passi molto graduali. Ma, prima o poi, nelle prossime settimane si dovrà toccare anche il tabù dell’articolo 18, almeno per i nuovi assunti.
   E non sarà indolore.

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