Fatta la manovra, il
governo vuol riformare il lavoro Ma per il progetto Ichino mancano voti e soldi
di Stefano Feltri
Chiusa la manovra, tocca al mercato del
lavoro. Fallite le liberalizzazioni, sperando di evitare il trauma di un altro
flop, il governo Monti passa al prossimo punto in agenda. Che sia il lavoro il
punto più delicato del mandato dei tecnici lo ha chiarito Pier Luigi Bersani, segretario del Pd: “Sono sicuro che quando si parla di
riformare il mercato del lavoro non si parla tanto di articolo 18, ma di chi
perde il lavoro in età avanzata. L’articolo 18 non è la questione”. Non sarà la
questione, ma di certo è il tabù: se si tocca quello, il tentativo di Bersani
di compattare il Pd su posizioni da sempre minoritarie nel partito, quelle“riformiste”,
potrebbe sfociare in un disastro. Magari con scissioni e forse la fine
dell’esperienza Monti. “Il nostro orizzonte è l’appuntamento elettorale”, ha
detto Bersani: contano più gli elettori dei tecnici. I colloqui informali,
preliminari, con il governo sono in corso da giorni.
Gli
stipendi dei pensionandi
Il dossier che ha in mano il ministro del
Welfare Elsa Fornero è più complesso
ancora del beauty contest sulle frequenze affidato a Corrado Passera. Qualcosa
bisogna fare, per due ragioni: la recessione, se sono giuste le stime della
Confindustria, nel 2012 sarà molto più grave del previsto: -1,6 per cento del
Pil contro il -0,5 stimato dal governo Berlusconi . Quindi serve un
segnale per la crescita, e una riforma del mercato del lavoro è quello che
chiedono i mercati e l’Unione europea. La seconda ragione l’ha spiegata il
ministro Fornero, in audizione alla Camera: finora le imprese cercavano di
liberarsi perfino dei 50enni perché troppo costosi, dopo la riforma delle
pensioni bisogna convincerle a tenerli fino a 67 anni. Quindi serve un
necessario intervento sulla “curva retributiva”, ha detto la Fornero. Tradotto:
si studieranno dei contratti per i lavoratori a fine carriera più simili a
quelli dei giovani, flessibili e a salario ridotto.
Ma non è questa la parte più traumatica. Fin
dai primi giorni, è stato chiaro che il governo voleva seguire la linea di
riforma indicata dal senatore del Pd e giuslavorista Pietro Ichino, che finora si è tradotta in disegni di legge arenati in
Parlamento.
I
costi del modello Ichino
Il “modello Ichino” è questo: tutti i
lavoratori vengono assunti a tempo indeterminato, con un periodo di prova di
sei mesi in cui non si applica l’articolo 18 che obbliga le imprese a
riassumere i lavoratori licenziati senza giusta causa, pagando loro pesanti
indennizzi. Dopo il periodo di 6 mesi, scattano le vecchie tutele, con una
differenza: l’impresa può licenziare anche per motivi economici e
organizzativi, pagando un’indennità che cresce con l’anzianità di servizio. Più
tempo hai lavorato, più costoso sarà per l’impresa allontanarti. Niente cambia
per gli attuali lavoratori a tempo indeterminato tutelati dall’articolo 18 (che
vale solo nelle imprese con più di 15 dipendenti).
Monti ha già annunciato una “riforma del
mercato del lavoro per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di giovani e
donne, le due grandi risorse sprecate del nostro Paese”. Ma, per quanto bene
possa fare alla crescita, ci sono dei costi iniziali non indifferenti. Nel
progetto di Ichino i lavoratori licenziati possono contare su un’assicurazione
che, in caso di perdita del lavoro, garantisce fino a tre anni di retribuzione,
il primo anno al 90 per cento dello stipendio e poi al 70. Questa assicurazione
dovrebbe essere a carico delle imprese, ma al ministero stanno facendo due
conti: alzare adesso il cuneo fiscale, cioè la differenza tra il costo di un
lavoratore all’azienda e il suo salario netto in busta paga, sarebbe un
disastro, scoraggerebbe le poche assunzioni previste. Ma introdurre incentivi pubblici
per ridurre questo extra costo è poco proponibile, visto che i soldi da
spendere sono pochissimi.
Il
rischio dello scontro
Bersani e il Pd già temono il bis del 1996: la
riforma senza gli ammortizzatori, cioè più precarietà ma niente garanzie. E
quindi stanno facendo pressione sulla Fornero perché qualunque discorso sul
mercato del lavoro parta da una riforma degli ammortizzatori sociali, a
cominciare dalla cassa integrazione. Interventi che valgono 7-8 miliardi. Oltre
che con i partiti, il governo Monti ha qualche problema al suo interno. Il
ministro Fornero è esperta di pensioni, meno di mercato del lavoro. Quello è il
campo di Michel Martone,
giuslavorista nominato viceministro, ma che ancora non ha ricevuto le deleghe.
Che sono una questione delicata, sia per i rapporti di forza dentro l’esecutivo
che per la relazione con i sindacati . La Fornero non può appaltare
completamente una riforma così delicata al suo vice che è visto soprattutto
dalla Cgil come troppo riformista per essere un interlocutore.
Martone,
per ora, non commenta.
Ma chi frequenta i corridoi del ministero del
Welfare sostiene che, comunque finisca la spartizione delle deleghe, sia la
Fornero sia Martone non hanno alcun interesse ad andare allo scontro frontale
con Susanna Camusso e l’ala sinistra del Pd, si procederà con passi molto
graduali. Ma, prima o poi, nelle prossime settimane si dovrà toccare anche il
tabù dell’articolo 18, almeno per i nuovi assunti.
E non sarà indolore.
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