venerdì 26 settembre 2008

GLI ISTITUTI PENITENZIARI FIORENTINI


di Luigi Morsello *

Sono stati la mia prima sede di servizio, con le funzioni ed il grado di vice direttore aggiunto (in prova per sei mesi).
Vi presi servizio il 14 luglio 1967, avevo 29 anni, mi ero laureato (con ritardo, non ero uno studente modello) tre anni prima, feci quell’unico concorso e lo vinsi.
Non sapevo quasi niente di carceri, avevo conosciuto solo la Casa di Rieducazione per Minorenni (una struttura per la prevenzione dei reati minorili, oggi scomparsa del tutto col passaggio alle regioni di tale compito, che se ne sono infischiate del tutto), dove mio padre ha prestato servizio dal 1941 fino al suo pensionamento.
Entrai in un carcere, il vecchio carcere giudiziario di Salerno, per ricevere i documenti di viaggio necessari per raggiungere Firenze: non mi fece una bella impressione.
Mio padre mi aveva messo in guardia, che avrei trovato un mondo del tutto diverso ed estraneo al vivere esterno, ma io, pieno di illusioni, non gli avevo creduto.
Ebbi modo, dopo avere visto fugacemente il carcere di Salerno, di constatarlo a Firenze.
Vi giunsi in pena estate, in treno, senza nemmeno prenotare un albergo, sicuro che avrei trovato ospitalità nella caserma agenti di uno dei due istituti penitenziari maschili.
Gli istituti penitenziari fiorentini si componevano di:
1) Carcere Giudiziario “Le Murate”, in via Ghibellina;
2) Sezione Femminile “S. Verdiana”, in via dell’Agnolo;
3) Casa di Reclusione “S. Teresa”, in via della Mattonaia.
L’Arno era a 100 metri dal carcere giudiziario e a 200 dalla casa di reclusione. Insomma, erano in pieno centro cittadino e furono investiti dalla disastrosa alluvione del 4 novembre 1966. Il livello dell’acqua allagò il pian terreno delle tre carceri e i detenuti trovarono rifugio nei piani superiori e sui tetti.
Il quadro del pittore Gino Tilli restituisce un’immagine meno fosca di quella calamità naturale, che provocò danni inestimabili ai tesori dell’arte delle biblioteche, delle pinacoteche. Le immagini televisive e le fotografie dell’epoca sono in bianco e nero e sono nella memoria di quanti nel 1966 erano giovani.
I responsabili delle carceri fiorentine erano:
1) dr. Giuseppe Lattanzio, direttore superiore, direttore;
2) rag. Giuliano Ruggini, ragioniere capo;
3) rag. Luigi Parisi, contabile di cassa e del materiale;
4) maresciallo capo Pirazzoli, comandante degli agenti di custodia del carcere giudiziario;
5) maresciallo capo Filia Palmerio, comandante degli agenti di custodia della casa di reclusione;
6) suor Teresa Matteucci, madre superiora e responsabile delle suore addette alla vigilanza della sezione femminile; la portineria della sezione era sorvegliata da agenti di custodia.
Non c’erano unità femminili del corpo degli agenti di custodia.
Vigevano il regolamento carcerario del 1931, il regolamento agenti del 1937, il codice penale ed il codice di procedura penale Rocco del 1931.
Gli agenti di custodia erano un corpo militare, militarmente organizzato.
Organo decentrato dell’amministrazione penitenziaria era l’ispettorato distrettuale, retto da un dirigente superiore, prima della dirigenza (anno 1972) da un ispettore generale. Quello fiorentino aveva la responsabilità delle carceri toscane ed umbre.
L’ispettore distrettuale era il dr. Leo De Santis, indimenticabile ed indimenticata figura di funzionario. Era stato nell’arma dei carabinieri, ne era uscito col grado di capitano, giudicandola disciplina dell’epoca troppo rigida. Forte di questa sua esperienza, la sua gestione era solo apparentemente rigida, in realtà era un funzionario di grande equilibrio, esperienza consolidata, che adottava decisioni in ordine al suo personale sempre le meno gravose possibili, memore della disciplina gravosa provata nel suo precedente lavoro.
Il direttore Lattanzio era un uomo malato, era stato cancelliere presso gli uffici giudiziario non ricordo dove, poi aveva cambiato mestiere.
Era riluttante ai cambiamenti, alle novità, non aveva cognizioni di ragioneria né si era mai curato di apprenderle (un male comune anche ai direttori di oggi), non aveva un buon rapporto con il dr. De Santis, era un bravo pittore (aveva partecipato alla mostra biennale di Venezia e vinto un secondo premio),aveva sposato in tarda età una donna molto più giovane, poderosa e piena di vitalità, non aveva figli.
Quando giunsi a Firenze mi accolse un po’ freddamente, mi fece conoscere i componenti dell’ufficio segreteria del quale mi mise a capo e tornò alle sue (scarse occupazioni): era indecifrabile, specie per un giovincello di provincia come me, inesperto nonostante l’età.
Gli uffici di direzione erano presso il carcere giudiziario, l’ufficio di ragioneria era presso la casa di reclusione, si raggiungeva a piedi, la distanza era minima, un centinaio di metri.
Dei componenti la segreteria ricordo il nome solo di un brigadiere, si chiamava Ombra Ernani, era campano e era magrissimo e piccolo di statura.
Mi feci accompagnare alla casa penale (abbreviazione gergale), lì conobbi i due funzionari di ragioneria.
Il rag. Ruggini, genovese, era molto riservato, sembrava tenere a distanza le persone, era leggermente strabico.
Il rag. Parisi, pugliese, era invece aperto, cordiale, simpatico, si prese subito cura di me, andammo nell’ufficio del maresciallo comandante Filia, anch’egli persona cordialissima, sardo, che mi fece da insegnante e mi guidò nella comprensione dell’ambiente del carcere, come il rag. Parisi nella comprensione dei misteri della ragioneria carceraria.
Trovai alloggio (abusivo) in una stanza della caserma agenti.
Per la restante parte del mese di luglio e quello di agosto, in ferie un po’ tutti, restai lì ad annusare un po’ in giro, ma non avevo niente da fare e allora iniziare col fare il lavoro di protocollo della corrispondenza in arrivo e partenza.
Mi ero prefisso di farlo in tutti i settori di servizio, laddove era possibile senza interferire coi titolari degli uffici.
Ma ero impaziente da una parte e dall’altra pensavo che il periodo di prova fosse una cosa seria (non lo era), per cui ero timoroso in questo senso. Il solo Parisi mi disse di non temere, non era mai accaduto che un vice direttore non superasse il periodo di prova: aveva ragione !
A settembre, siccome scalpitavo per aver da fare, mi furono consegnati due incarichi, entrambi connessi con i danni causati dalla disastrosa alluvione dell’anno precedente:
1) provvedere all’acquisto degli arredamenti necessari a rimpiazzare quelli danneggiati o distrutti dall’alluvione;
2) provvedere alla riparazione dei danni alluvionali.
Per entrambi gli incarichi v’era già la copertura finanziaria, cioè lo stanziamento di fondi sui relativi capitoli del bilancio passivo dello Stato.
C’era un ma, anzi ce n’era più di uno.
Primo, i fondi dovevano essere spesi entro l’esercizio finanziario corrente, cioè entro il 31 dicembre dell’anno 1997.
Secondo, io non avevo nessuna esperienza, ovviamente.
Come si diceva una volta: o imparavo a nuotare o affogavo.
Almeno questo era il mio convincimento, errato, come scoprii molti anni dopo in cui mi fu detto che la regola era: meno fai meno rompi le scatole, in lingua toscana “chi non fa, non falla”.
Ma questa regola io non l’ho mai accettata.
Dovetti imparare rapidamente, avevo davanti a me solo quattro mesi di tempo. Li impiegai bene. Alla fine dell’anno avevo provveduto ad acquistare arredamenti per tutti gli uffici dei tre istituti, arredamenti della Olivetti, mentre le macchine per scrivere e le calcolatrici, manuali ed elettriche, venivano fornite direttamente dall’amministrazione centrale. Dovetti anche imparare (si fa per dire) a scrivere a macchina, con due dita (gli indici), come ho continuato a fare sempre.
Mentre le gare per l’acquisto di arredamenti le feci rilevando ufficio per ufficio quale erano le loro necessità, servendomi di cataloghi Olivetti, sottoponendo poi i preventivi all’Ufficio Tecnico Erariale per il visto di congruità dei prezzi, per il ristoro dei danni alluvionali erano necessarie fare le perizie e queste le doveva fare il Genio Civile.
Il mio referente erano un ingegnere ed un geometra. Furono molto attivi, erano già impegnati ad effettuare lavori con i fondi nel Ministero dei Lavoro Pubblici.
Laddove non arrivavano con i loro fondi, assegnati per tutti gli edifici demaniali danneggiati dall’alluvione.
Riuscii nell’intento, furono appaltati lavori (le gare le facevo io per conto della direzione del carcere, i contratti li firmava il direttore titolare) per:
1)rifacimento degli impianti elettrici, con messa a norma, della Casa Penale;
2)rifacimento dell’impianto di riscaldamento della casa penale;
rifacimento degli impianti di riscaldamento degli alloggi demaniali di: direttore, maresciallo comandante ed ispettore distrettuale;
2) restauro dei predetti alloggi, parzialmente danneggiati dalle acque alluvionali;
3) rifacimento del piano terreno della sezione femminile;
4) restauro della cappella della sezione femminile;
5) rifacimento dell’impianto di riscaldamento della caserma agenti del carcere giudiziario;
6) restauro dell’alloggio demaniale riservato al vice direttore, di quello del maresciallo comandante del carcere giudiziario, di altri due alloggi annessi a disposizione del personale, di un altro alloggio soprastante quello del vice direttore, mai toccato dalle acque alluvionali (tant’è, l’alloggio faceva schifo, i soldi c’erano !).
Un dettaglio di non poco conto: la perizia per l’alloggio del vice direttore la feci io, utilizzando gli stampati del Genio civile.
Stavo imparando, ero come una carta assorbente, imparavo da tutti, soprattutto dal rag. Parisi e dal maresciallo Filia.
Mi fu detto che l’ispettore distrettuale mi teneva in osservazione, mostrando interesse, ebbi modo di constatarlo l’anno successivo, come dirò più in là nella narrazione.
Mi preme però evidenziare che il servizio dei Conti Correnti detenuti [la gestione dei soldi che ricevevano dall’esterno o frutto del lavoro in carcere (pagato quattro soldi)] lo imparai da un detenuto, si chiamava Calascibetta Luciano, reati contro il patrimonio, che lavorava come scrivano per e nel carcere giudiziario.
Aveva un ufficietto al terzo pianto della rotonda centrale della I^ sezione, periodicamente io uscivo dal mio ufficio, superavo i vari sbarramenti, avvivano al pianto terreno e salivo le scale fino al terzo ed ultimo piano, laddove lavorava Calascibetta.
Era una persona intelligente, non abbastanza per non farsi acchiappare in castagna, faceva il caffé e quindi si iniziava, lui al suo ‘posto di comando’, io di fronte a lui.
In pratica la posizione classica di quando io facevo le udienze coi detenuti (su delega del direttore), ma a parti invertite.
La casa penale aveva delle lavorazioni carcerarie, una falegnameria ed una calzoleria che operavo su commesse ministeriali, ma vi erano anche servizi di sartoria e di riparazioni meccaniche, con un solo detenuto lavorante.
Vivevo in caserma agenti presso la casa penale, giocoforza bazzicavo le lavorazioni, quasi tutti i giorni. Mi appassionava soprattutto la falegnameria, che aveva un capo d’arte (operaio specializzato dello Stato), fiorentini, si chiamava Federico Lucchetti, un accanito fumatore, già in là con gli anni, che non riuscì ad arrivare alla pensione, proprio a causa del suo vizio di fumare sigarette, un tumore al polmone se lo portò via in poco meno di un anno. Ma fece in tempo ad attaccarmi la passione eri il legno e la sua lavorazione. Era bravo ed aveva dei bravi detenuti lavoranti, tutti con una lunga pena da scontare, che poteva quindi formare a dovere.
Il detenuto sarto poi mi confezionò l’abito scuro monopetto che usai per sposarmi l’anno successivo.
Il cappellano della casa penale era un prete appassionato di musica classica, passione che ci accomunava, mi prestava i suoi dischi (io ne avevo pochini), che non amava Brahms: sorprendente, vero ? Diceva che la sua musica era una accozzaglia di suoni. “De gustibus …”. Anche quel sacerdote morì qualche anno dopo, ma io non ero più a Firenze.
Bene, negli uffici di ragioneria ormai si erano abituati alla mia presenza, ficcavo il naso dappertutto, smanioso di sapere ed imparare: è sempre stato così, ed ancora oggi !
Non entrava in quegli uffici il vice direttore ma l’alunno e apprezzavano la mia cordialità (timidezza ?), senza approfittarne.
Gli agenti che vi lavoravano erano un vero campionario di umanità. Non erano solo di estrazione meridionale. Uno di essi, un appuntato, era un cacciatore appassionato. Tanto feci che una domenica acconsentì a che io mi accompagnassi a lui e mi fece anche sparare col fucile da caccia. In casa mia, mio nonno paterno Luigi, mio zio Francesco erano cacciatori accaniti. A dire il vero mio nonno, un antifascista pensionato prima del tempo per aver rifiutato di prendere la tessera del partito, già sul finire degli anni ’40 mi portava, fucile da caccia a spalla, con sé a caccia di colombacci, ma già era divenuto consapevole della inutilità e della crudeltà della caccia e me lo disse in più di una occasione. Mio zio Francesco fece analogamente, molti anni dopo.
Certo cose si imparano nell’età matura, io non sono mai stato cacciatore, ma adesso provo nausea al solo pensiero.
Del periodo fiorentino occorre dire solo che l’ispettore distrettuale dr. De Santis l’anno 1968 aspettava la visita del Primo Presidente della Corte d’Appello di Firenze alla sezione femminile e ci teneva a far bella figura, sapevo di non poter contare sul direttore, abulico (ma era – anche - la malattia già in avanzato stato: una volta si presentò in direzione con il viso di un impressionante color giallo limone) e decise di aggirare l’ostacolo. Non voleva dare un ordine diretto, rischiando un rifiuto né voleva impartire un ordine scritto, che lo avrebbe obbligato poi a procedere in via disciplinare nel caso, certo, che sarebbe rimasto lettera morta. Era un grande funzionario, ne scriverò a parte, in un secondo momento.
Allora mi fece contattare dal suo segretario, acconsentii ad occuparmene, allora mi convocò nel suo ufficio e mi disse cosa desiderava, aggiunse anche che il direttore non doveva saperne niente.
Era per me una enormità: non dire niente al direttore ? Pazzesco !
Ma la fregola di fare ebbe la meglio e feci, non informando nemmeno il ragioniere capo, feci la gara, chiesi i fondi, trattenni la ministeriale che autorizzava i lavori e preannunciava i fondi, ordinai i lavori e solo allora direttore e ragioniere capo ne divennero consapevoli, il secondo lo seppe dal proprio personale (non ho mai saputo chi), lo disse al direttore che si incazzò alla grande, mi convocò nel suo ufficio alla casa penale, presente il comandante Filia, e mi rifilò un cazziatone coi fiocchi!
Mi sentivo come se mi fosse passato addosso un ciclone, ma il maresciallo comandante Filia, uomo navigato, mi tranquillizzò: non sarebbe accaduto nient’aLtro, e così fu !
La visita del Primo Presidente della corte d’appello fu un successo.
L’ispettore distrettuale era visibilmente soddisfatto.
Mi attendevano anni duri, anni buoi, ma io non lo sapevo e gongolavo.
Ero un giovane funzionario, in ascesa nella considerazione dei superiori gerarchici, così fu fino al 21 gennaio1980, quando l’evasione di un detenuto eccellente, Guido Giovanni detto Gianni, mutò radicalmente la mia vita, di direttore.
Ma questa è un’altra storia, alla quale non c’è altro da aggiungere.
Le immagini sono: il cortile delle carceri giudiziarie in una stampa del 1860, una fotografia dell’alluvione (si vedono piazza duomo e piazza S.Croce invasa dalle acque) ed un quadro del pittore Gino Tilli.

* Ispettore Generale dell'Amministrazione penitenziaria
(continua)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

complimenti per la memoria dei nomi di tutti i personaggi incontrati.

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Grazie. E per i contenuti ?
Avrai modo di leggerne altri, 40 anni di servizio sono tanti.
Non solo. Davvero vado solo sul filo della memoria.
Figuriamoci se avevo tempo e voglia di prendere appunti !

Anonimo ha detto...

Finalmente!
Era ora!
Spero che non ti fermerai...
Ho appreso ('scoperto') una parte della tua vita (gli inizi lavorativi e le impressioni) che non conoscevo affatto.
Continua!

ps.
mi ha fatto molto piacere ritrovare sul tuo blog la foto di tua sorella e tuo nipote :-)

Madda