lunedì 3 novembre 2008

LA 'NDRANGHETA A ROMA



ROBERTO ORMANNI
DIRETTORE DE
IL PARLAMENTARE

Il ristorante “Alla Rampa”, uno dei locali più noti al centro di Roma, a ridosso di piazza di Spagna, sarebbe uno dei canali per il riciclaggio dei capitali della cosca calabrese Pelle-Vottari. A giugno scorso la Direzione distrettuale antimafia aveva chiesto al tribunale per le misure di prevenzione di disporne il sequestro d’urgenza, sulla base della documentazione raccolta dai carabinieri e relativa sia ai rapporti tra i soci della Srl Alla Rampa, che poco più di due anni fa ha acquistato lo storico locale dai precedenti proprietari, e alcuni esponenti della cosca calabrese, sia alle “incongruenze” tra le dichiarazioni dei redditi presentate negli ultimi anni dagli attuali titolari del ristorante, il valore di mercato della struttura e le somme versate per l’acquisto.
Ma la richiesta di sequestro preventivo è stata respinta dai giudici e si è avviato il procedimento al termine del quale, dopo aver esaminato da un lato gli elementi raccolti dagli investigatori e dal pm Filippo Vitello, e dall’altro i giustificativi dell’operazione commerciale esibiti dalla difesa della società Alla Rampa, il tribunale per le misure di prevenzione della Capitale deciderà se procedere al sequestro dell’attività e dell’immobile.
La prossima udienza è fissata il 20 novembre.
La Direzione antimafia sottolinea, nella documentazione esibita, oltre agli accertamenti patrimoniali anche alcuni precedenti di polizia che riguardano i titolari della società che ha comprato il ristorante, nonché frequentazioni e amicizie tra gli stessi proprietari ed esponenti delle famiglie Pelle, Vottari e Romeo. Componenti di quel clan al quale appartenevano i sei calabresi uccisi, a ferragosto del 2007, a Duisburg in Germania. Una strage maturata nell’ambito della faida in corso da anni a San Luca nella Locride, in Calabria, e avvenuta all’uscita di un altro ristorante della cittadina tedesca: “Da Bruno”.
Le indagini della Dda della Capitale non riguardano solo il ristorante “Alla Rampa”.
Negli ultimi tre anni sono stati avviati numerosi accertamenti su attività di ristorazione nelle quali vi sarebbero interessi non solo della criminalità organizzata calabrese, ma anche della mafia, in particolare delle cosche provenienti dalla provincia di Caltanissetta, e di alcuni clan della camorra, soprattutto quelli operanti nei comuni a sud di Napoli, da Portici e Castellammare. Le indagini dell’antimafia hanno invece accertato che i clan del casertano, come la cosca dei Casalesi, preferiscono investire in edilizia e immobili nella zona del basso Lazio.
In particolare, sono in corso indagini su due catene di pizzerie che, un tempo presenti solo in Campania, hanno poi aperto diversi “punti vendita” sia a Roma sia a Milano.
La presenza della criminalità organizzata calabrese nel Lazio è “sotto osservazione” da parte degli investigatori già da anni. Camorra, mafia e ‘ndrangheta trovano nel Lazio diverse occasioni sia per il riciclaggio di denaro, sia per estendere gli affari illeciti. Se i supermercati sono un settore nel quale si è specializzata la camorra, in particolare nei comuni sul litorale sud del Lazio, la mafia punta di più sui servizi alberghieri e sulle società finanziarie. Mentre la ‘ndrangheta si occupa di edilizia e ristorazione. Certo, non si tratta di una suddivisione rigida del mercato: un clan storico della camorra, “originario” della zona di Marano, a nord di Napoli, è “interessato” alla gestione di un prestigioso bar al centro di Roma, a pochi passi da piazza Venezia. Così come le cosche Casalesi, del casertano, si danno da fare nel settore immobiliare e con le aziende agricole e di allevamento di bestiame nel basso Lazio, in provincia di Latina e di Frosinone.
Per quanto riguarda la ‘ndrangheta, le indagini condotte negli ultimi anni hanno portato gli inquirenti a catalogare famiglie e zone geografiche di “intervento”.
Oltre venti ‘Ndrine (questo il nome usato dalla ‘Ndrangheta per indicare i vari clan) a Roma e nel Lazio rappresentano la “testa di ponte” della criminalità organizzata calabrese per il riciclaggio dei capitali… nella Capitale. Questo il dato che emerge mettendo insieme gli elementi raccolti negli ultimi anni nel corso delle indagini della Direzione antimafia della Procura di Roma e della Dia.
Dalla “A” di Anzio alla “T” di Terracina, passando naturalmente per Roma e alcuni comuni della provincia, la ‘Ndrangheta si è sempre più attestata nel Lazio sia per avviare attività commerciali e finanziarie in grado di riciclare capitali, sia – in alcuni casi – per “arrotondare” i guadagni con attività illecite come gioco d’azzardo, estorsioni, usura e traffico di droga. I “faldoni” degli inquirenti sono organizzati in ordine alfabetico:
Alvaro, Avignone, Barbaro, Bellocco, Condello, Farao, Gallace, Mollica, Iamonte, Marincola, Metastasio, Morabito, Nirta, Novella, Pelle, Pesce, Piromalli, Pisano, Ruga, Tripodo, Viola, Zagari. Ecco l’elenco delle ‘Ndrine del Lazio, la succursale calabrese all’ombra del Colosseo. Anche la mappa geografica è continuamente aggiornata: Anzio, Civitavecchia, Fondi, Formia, Gaeta, Nettuno, Roma, Ostia, provincia di Roma, Pontinia, Terracina.
Le indagini avviate nei mesi scorsi sull’acquisto, avvenuto un paio di anni fa, del ristorante “Alla Rampa”, storico locale a due passi da piazza di Spagna, da parte di imprenditori che la Dda ritiene legati al clan della Locride Pelle-Vottari, non sono le uniche ad occuparsi di reinvestimento di capitali illeciti nella ristorazione e in altre attività commerciali. Tutte attività lecite: la caratteristica del riciclaggio è infatti il finanziamento con capitali illeciti di attività “pulite”. In questo modo i capitali “ingiustificati”, provenienti da operazioni della criminalità, vengono spesi per comprare attività commerciali o per finanziare imprese di vario tipo che, invece, producono reddito “ufficiale”. E per raggiungere l’obiettivo di acquistare imprese o società commerciali i boss delle ‘Ndrine non badano a spese. Sono disposti, come risulta sia dalla documentazione raccolta dalla Direzione antimafia sia dalle intercettazioni telefoniche, a pagare un negozio, un ristorante, un centro commerciale, una società edile, anche il doppio del loro valore reale. Adoperando prestanome, paraventi societari, bonifici estero su estero: gli imprenditori “puliti” vengono talvolta convinti, in alcuni casi costretti, a vendere. Dalle casse della ‘Ndrangheta esce denaro “scomodo” ed entrano soldi al di sopra di ogni sospetto, quelli incassati
dal ristorante, dalla pizzeria, dal negozio di abbigliamento e perfino dalla società di servizi che lavora per il grande albergo nel centro storico.
La ‘Ndrina investe, ad esempio, un milione di euro che non può giustificare per avere, in cambio, un’attività che vale 600 mila euro al di sopra di ogni sospetto. Per evitare di insospettire il fisco e gli investigatori, spesso il prezzo che le cosche pagano per acquistare negozi a Roma è diviso in due parti: una ufficiale che viene regolarmente fatturata dalla società del venditore a fronte di un atto notarile (spesso però acquisti in diverse zone del Lazio vengono registrati sempre dallo stesso gruppo di tre o quattro notai, hanno osservato gli inquirenti), e un’altra in nero, bonificata da un conto estero di una società off shore ad un altro conto estero intestato ad un’altra società che fa capo al venditore e che, magari, è stata creata per l’occasione. I principali settori d’interesse sono l’edilizia, le società finanziarie e, nell’ambito del commercio, oltre alla ristorazione figurano l’abbigliamento (è in corso un’indagine su una catena di negozi “casual”), le concessionarie di auto (ne sono state sequestrate diverse sul litorale) e, da qualche tempo, anche
i punti vendita in franchising per il noleggio di film.
Un fenomeno che non è facile contrastare: le indagini patrimoniali sono allo stesso tempo il punto più debole per la criminalità organizzata e lo “scoglio” più difficile per gli investigatori. Col tempo le associazioni criminali hanno messo a punto meccanismi sempre più sofisticati per nascondere i passaggi di denaro, di beni e di società tra l’origine illecita e gli “schermi” puliti.
Ai sequestri e alle confische nell’ambito di quelle che in gergo tecnico si chiamano “procedimenti per le misure di prevenzione patrimoniale”, si aggiungono i provvedimento di sequestro e confisca (il sequestro è il primo passo di un procedimento che può concludersi con la confisca, che è invece definitiva) basati sulle sentenze di condanna per reati che vanno dall’associazione mafiosa al traffico di droga. Accuse che, secondo la legge, giustificano, dopo la condanna, il sequestro di beni che i magistrati ritengono possano essere stati acquistati grazie ai proventi di quei reati.
Negli ultimi giorni anche su questo fronte si sono registrate iniziative che hanno colpito esponenti della ‘ndrangheta residenti a Roma: beni per un valore complessivo di oltre 700 mila euro sono stati confiscati al boss della ‘Ndrangheta Roberto Pannunzi.
Pannunzi, insieme con il figlio Alessandro, è ritenuto dagli inquirenti uno dei principali esponenti delle famiglie calabresi in collegamento con i narcotrafficanti colombiani. Entrambi latitanti fino al 2004, Roberto e Alessandro Pannunzi sono stati arrestati nelle vicinanze di Madrid il 4 aprile di quattro anni fa. Pochi mesi prima Alessandro Pannunzi aveva sposato la figlia di uno dei capi del “cartello di Medellin”, l’organizzazione colombiana di narcotrafficanti. Roberto Pannunzi da anni era residente a Roma e dalla Capitale controllava gli affari della ‘ndrina e provvedeva a “indirizzare” il riciclaggio dei capitali in attività commerciali ed edilizie.Il provvedimento di confisca, firmato dai magistrati della Corte d’appello di Reggio Calabria ed eseguito dalla polizia, riguarda un appartamento a Roma, nelle vicinanze di via Trionfale, e due auto Mercedes del valore di circa 70 mila euro ciascuna. La confisca segue la condanna di Roberto Pannunzi, diventata definitiva nei mesi scorsi, a 22 anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti. Tra il 1999 e il 2004 Roberto e Alessandro Pannunzi sono stati latitanti in Spagna da dove, secondo gli inquirenti, gestivano il traffico internazionale di cocaina. Una “triangolazione” che vedeva la partenza dei carichi dal Sud America, il transito in Spagna e la consegna alle famiglie calabresi dei Paviglianiti e dei Marando, “responsabili” del versante jonico della provincia di Reggio Calabria. Stando a quanto accertato dagli investigatori italiani in collaborazione con la polizia sudamericana e la Dea, il dipartimento antidroga statunitense, Pannunzi riusciva a smistare circa due tonnellate di cocaina al mese.
I Pannunzi vennero arrestati a Calle Coto Blanco, in un elegante appartamento nell’esclusivo quartiere di Majadahonda.
Oltre alla confisca di alcuni beni di Pannunzi a Roma, la sezione misure di prevenzione della Corte d’appello di Reggio Calabria ha emesso anche due provvedimenti di sequestro patrimoniale nei confronti di Giovanni Morabito e Domenico Careri. Morabito, nato a Melito Porto Salvo e residente ad Africo Nuovo, in provincia di Reggio Calabria, è attualmente detenuto a Rebibbia, a Roma, dove si è costituito il 28 settembre 2005 per scontare un residuo di pena di sei anni e undici mesi per associazione mafiosa. La polizia ha sequestrato a Morabito – esponente della ‘ndrina Palamara-Morabito – un suolo acquistato nel 1985 ad Africo dove era stata costruita, abusivamente, una palazzina di tre piani. Il sequestro riguardante Careri, nato a Rosarno e residente a Rizziconi, disposto sempre dai magistrati di Reggio Calabria, si riferisce a un rudere di 100 metri quadrati acquistato a Rizziconi nel 1987 e trasformato, negli anni successivi in un edificio composto da due corpi di fabbrica di tre piani ciascuno, nonché a due appezzamenti di terra di 6.300 metri quadrati complessivi. Domenico Careri, considerato affiliato alla cosca Piromalli, è stato condannato il 9 dicembre 2005 a cinque anni e quattro mesi di reclusione per associazione mafiosa ed estorsione.

Roberto Ormanni

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