ROBERTO ORMANNI
DIRETTORE DE
IL PARLAMENTARE
Per la prima volta un libro di narrativa viene utilizzato dal crimine organizzato come “codice” per le comunicazioni tra gli associati. La singolare scoperta è uno dei capitoli dell’inchiesta condotta dalla Direzione antimafia di Reggio Calabria sui rapporti tra la politica locale e le cosche dei Piromalli e dei Molè, che ha portato all’arresto, tra gli altri, dell’ex sindaco e dell’ex vicesindaco del comune di Gioia Tauro (sciolto per infiltrazioni mafiose ad aprile scorso), del sindaco di Rosarno e all’iscrizione nel registro degli indagati del sindaco di San Ferdinando, Francesco Barbieri.
Oltre a ricostruire i rapporti tra la politica e il clan Piromalli, che passavano attraverso l’avvocato Gioacchino Piromalli, nipote e omonimo del capoclan della cosca (anche loro arrestati) gli inquirenti hanno accertato che le donne del clan Molè utilizzavano il libro di Susanna Tamaro “Va’ dove ti porta il cuore” per ricavarne un codice segreto utile a portare fuori dal carcere i messaggi dei mariti detenuti.
Il ruolo delle donne nell’attività delle cosche era già stato evidenziato a luglio scorso, nell’operazione che, di fatto, decapitò le organizzazioni criminali operanti nella piana di Gioia Tauro. Dalle indagini coordinate dal procuratore capo Giuseppe Pignatone è emerso che i capi dei clan Piromalli e Molè utilizzavano i colloqui in carcere per restare in contatto con le organizzazioni.
In particolare, Valeria Mesiani Mazzacuva e Caterina Albanese erano molto attive riportando all’esterno i messaggi e le direttive dei rispettivi mariti, gli ergastolani Girolamo e Domenico Molè. E per evitare di essere scoperte, qualora gli agenti penitenziari o le intercettazioni le avessero “colte sul fatto”, avevano messo a punto un vero e proprio codice segreto.
I messaggi venivano in sostanza cifrati e per “decrittografarli” era necessario conoscere il testo di riferimento, proprio come avviene per le comunicazioni militari. Il cifrario della ‘Ndrangheta era il libro della Tamaro scelto, evidentemente, in omaggio alla “valorizzazione” delle figure femminili nelle cosche. “Una sorta di quota rosa nella criminalità”, hanno osservato ironicamente gli investigatori.
In pratica, i messaggi consegnati dagli uomini del clan in carcere erano soltanto un insieme di numeri. Bisognava poi confrontare la sequenza numerica libro alla mano per risalire alle pagine e alle singole parole che, messe insieme, rivelavano il vero contenuto del messaggio. Tra i dialoghi ricostruiti dagli investigatori, anche quelli che ricostruivano la morte di Rocco Molè, ucciso a febbraio scorso. E a questo proposito Valeria Mesiani Mazzacuva sosteneva, nei messaggi, la necessità di una “vendetta immediata” e non condivideva la linea attendista del marito Girolamo Molè. La prova, secondo gli inquirenti, che il ruolo della componente femminile all’interno dell’organizzazione andava oltre la semplice funzione di portaordini.
L’indagine, che ha portato in carcere sia gli amministratori locali sia l’avvocato Piromalli che lo zio, Gioacchino Piromalli, di 64 anni, considerato dagli inquirenti uomo al vertice del clan, ha ricostruito anche la dinamica delle infiltrazioni della cosca nelle amministrazioni comunali.
I rapporti tra la cosca Piromalli e gli amministratori sarebbero stati avviati in seguito alla condanna dell’avvocato Gioacchino Piromalli, 39 anni, nipote del boss anch’egli arrestato, per il reato di associazione mafiosa. Il legale era stato anche condannato al risarcimento di ben dieci milioni di euro in favore delle parti civili: i comuni di Gioia Tauro, Rosarno, San Ferdinando e la Provincia di Reggio Calabria.
Nei mesi seguenti la condanna Piromalli ha comunicato alle amministrazioni che “era impossibilitato a fare fronte a tale obbligazione”, aggiungendo però che “essendo laureato in giurisprudenza e scienze politiche” era disponibile per “un risarcimento per equivalente, prestando la propria attività professionale per le amministrazioni”. Una richiesta ufficiale, inoltrata ai comuni attraverso un’istanza regolarmente depositata al tribunale di sorveglianza. I giudici avevano perciò chiesto formalmente alle amministrazioni di esprimere il loro parere. I comuni di Gioia Tauro, Rosarno e San Ferdinando accolsero la proposta di Piromalli ma, ieri, la Direzione antimafia ha contestato che “tale assenso è in palese violazione dei precetti normativi in vigore”. Anche il sindaco di San Ferdinando infatti, Francesco Barbieri, risulta indagato nella stessa inchiesta.
Secondo gli investigatori, ciò avrebbe consentito alla cosca “di entrare ufficialmente e con tutte le autorizzazioni del caso all'interno dei municipi in questione, aumentando in tal modo il prestigio e le possibilità, già ingenti, di controllo e di indirizzo della pubblica amministrazione verso gli interessi dell’organizzazione”.
La vicenda dell'inserimento di Gioacchino Piromalli nel comune di Gioia Tauro e Rosarno viene definita dai pm della Dda di Reggio Calabria, come un “aspetto sintomatico dell'asservimento del potere politico-amministrativo alla 'ndrangheta”.
“E, per converso - proseguono i pm - della necessità di quest'ultima di poter disporre dei riferimenti presso la pubblica amministrazione per poter conseguire i propri scopi di dominio del territorio, di acquisizione di prestigio presso la collettività che le è ormai indispensabile per la gestione del potere”.
“Perché questo - scrivono ancora i pm - è in realtà, il vero aspetto della mafia, che vive e prospera grazie al rapporto che instaura coi pubblici poteri.
Un 'aspetto sintomatico' che per caso e' stato conosciuto, grazie alla iniziativa del Consiglio dell’Ordine di Reggio Calabria che, avendo ricevuto una delle istanze di Piromalli, è rimasto “scandalizzato” (sottolineano i pm) per la richiesta pervenuta, “letteralmente offensiva”, ed ha subito informato la Procura della Repubblica competente. Strano che sia rimasta isolata – aggiungono i magistrati inquirenti - eppure le stesse istanze erano state inoltrate a tante autorità, che parimenti avrebbero dovuto rimanere esterrefatte per l'ardire del mafioso, e comportarsi di conseguenza. Strano?
Forse no – concludono i pm – ed è triste doverlo constatare”.
I legami tra amministrazioni e clan hanno causato anche una modifica al progetto dello svincolo di Gioia Tauro dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Un cambiamento nei piani di lavoro ottenuto per fare un favore a Gioacchino Piromalli senior, lo zio dell’avvocato. Un obiettivo raggiunto dalla cosca grazie alla “disponibilità” – sottolinea l’accusa – degli amministratori del comune di Gioia Tauro. Gli investigatori hanno ricostruito la vicenda nell’ordinanza di custodia cautelare.
Circa due anni fa il vecchio Piromalli fu contattato da diversi proprietari terrieri della zona di Gioia Tauro preoccupati per l’avvio, imminente, delle procedure di esproprio e indennizzo per i suoli destinati alla costruzione del nuovo svincolo autostradale della A3. Gioacchino Piromalli, che era – dicono gli inquirenti – già riuscito ad acquisire il controllo di una parte dei lavori per la costruzione di una variante alla strada statale 111, avrebbe ottenuto dall’amministrazione un intervento per far modificare il progetto autostradale, con la scusa di una presunta incompatibilità con il piano dei lavori della statale.
“Una soluzione – osservano i magistrati – che riuscì a passare perché non appariva in aperto contrasto con le norme. Di fatto – concludono – contrariamente a quanto previsto all’inizio, l’area che interessava ai Piromalli non cambiò destinazione urbanistica e il boss si conquistò la riconoscenza dei proprietari terrieri”.
L’ex sindaco di Gioia Tauro è ritenuto dagli inquirenti il principale referente del clan Piromalli.
“Il classico amministratore pubblico che si mette al servizio del crimine organizzato”: questa è la definizione che gli inquirenti danno di Giorgio Dal Torrione.
Secondo i pm della Direzione antimafia della procura di Reggio Calabria, Dal Torrione, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, “mette il suo potere a disposizione” del clan. E nella parte dedicata alla ricostruzione dei rapporti che il sindaco Dal Torrione aveva con altri esponenti politici, l’ordinanza di custodia cautelare fa riferimento, tra l’altro, anche a un’informativa della polizia inviata alla Dda nel marzo 2008, relativa ad alcuni contatti, avvenuti nel febbraio precedente, tra Giorgio Dal Torrione e Fabio Laganà, fratello di Maria Grazia Laganà, deputato del Pd e vedova di Francesco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria ucciso in un agguato a Locri il 16 ottobre del 2005.
Secondo quanto riportato dagli investigatori ai magistrati, “Fabio ha informato Dal Torrione della proroga della visita al comune di Gioia Tauro della commissione di accesso inviata dalla Prefettura per verificare eventuali infiltrazioni della criminalità nella gestione amministrativa."
Una notizia al momento riservata, che riguardava una vicenda di enorme rilevanza per Dal Torrione.
Sapere che la visita della commissione era al momento prorogata, cioè rinviata, era importante. La commissione infatti già dal mese di dicembre 2007 aveva il compito di verificare i sospetti di infiltrazione mafiosa che gravavano sul comune di Gioia Tauro che, infatti, è stato poi sciolto nell’aprile successivo.
Le ispezioni al comune di Gioia Tauro sono dunque nell’aria e il sindaco Dal Torrione è preoccupato. Per questo cerca di ottenere anche colloqui istituzionali con due componenti della Commissione parlamentare antimafia: Mario Tassone, dell'Udc, e la stessa Maria Grazia Laganà. Non riesce nel suo intento ma, riferisce la polizia, il 21 febbraio 2008, Dal Torrione viene informato da una persona, componente della segreteria politica di Laganà, indicato come Fabio, della proroga nell’arrivo della commissione d'accesso.
Agli atti c’è anche la trascrizione della conversazione tra il sindaco e Fabio. Dal Torrione si dice contento “se no ci avrebbero fatto il culo a cappello di prete”, commenta. La conversazione, sottolineano i pm, “è particolarmente significativa per due motivi. Il primo è relativo alla esigenza e alle iniziative che Dal Torrione ha adottato per ritardare al l'accesso della Commissione, al punto che Fabio si affretta a chiamarlo per comunicargli della proroga. E non manca di sottolineare il valore positivo della cosa, segno evidente del fatto che ben sa come tale risultato fosse particolarmente desiderato da Dal Torrione. Il secondo è quello relativo al timore manifestato da entrambi con riferimento agli esiti del lavoro della Commissione, su cui mostrano di voler intervenire, quanto meno per ritardarne l'inizio dei lavori”
Un ritardo che permette al sindaco di sistemare alcune cose. Anzitutto modifica la composizione della Giunta allo scopo di eliminare “un personaggio equivoco”, osservano gli inquirenti, cioè il vice sindaco Rosario Schiavone, “colpevole di non essersi dimesso”. Un riferimento, quest’ultimo ai rapporti che Schiavone aveva avuto con Gioacchino Piromalli, l’avvocato nipote del boss.“Alla luce dei risultati investigativi acquisiti in ordine alla vicenda - aggiungono i pm - non c’è che da concludere che il vero personaggio equivoco, per bocca dello stesso interessato, è proprio lui, il Dal Torrione”.
In riferimento ai contatti tra “Fabio” componente della segreteria politica di Maria Grazia Laganà e il sindaco di Gioia Tauro, è intervenuta la stessa Laganà. “Mio fratello chiarirà la questione”, ha dichiarato l’esponente del Pd. “Anche se non è detto esplicitamente negli atti – ha aggiunto Laganà - ritengo che il Fabio di cui si parla nelle carte dell'inchiesta sia mio fratello. Sarà lui, comunque, a chiarire tutto”.
Nell’ordinanza di custodia emessa a suo carico, il gip definisce il sindaco Giorgio Dal Torrione come la persona disposta “a fornire alla criminalità organizzata ciò di cui aveva bisogno: la sua esperienza, le sue conoscenze e tutta la gamma di opportunità che un navigato amministratore pubblico può offrire”. I magistrati così concludono: “Dal Torrione è stato l'ispiratore della condotta delittuosa e il soggetto trainante nella perpetrazione dell'illecito, ancora una volta ricorrendo alle più subdole arti perché non gli si potesse addebitare alcunché”.
Contro un altro degli amministratori arrestato, il sindaco di Rosarno Carlo Martelli, c’è anche la testimonianza del collaboratore di giustizia Salvatore Facchinetti. Il pentito, in un verbale di interrogatorio, sostiene che “‘sti ragazzi (riferendosi ad esponenti del clan, n.d.r) erano quelli che portavano i voti p’ ‘o sindacu Martelli perché a Martelli l'hanno messo loro”.
Le ragioni della scelta di Carlo Martelli come candidato sindaco le spiega il pentito, specificando che si trattava di una persona che un tempo poteva contare su discrete possibilità finanziarie e che, successivamente, sarebbe “andato in disgrazia”, forse per il vizio del gioco.
Una circostanza che, secondo i pm, spiegherebbe più facilmente la disponibilità dell’amministratore locale ad accogliere le richieste della cosca Piromalli. “E hanno messo a Martelli – prosegue, infatti, il pentito - pecchì siccome Rao (un altro esponente politico locale, n.d.r.), non lo so perché non si è messo lui direttamente come sindaco, però era lui quello che ha messo a Martelli che prima stava benissimo a livello di soldi e poi è sceso proprio giù”.
“Ho saputo pure che era sotto usura – aggiunge Facchinetti nell’interrogatorio – che aveva il vizio delle carte e hanno messo a lui come il sindaco di Rosarno, e di cui ci sono stati pure dei voti falsi”.
In particolare, sulla vicenda dei voti falsi Facchinetti aggiunge che “avivano diversi carti d'identità e firmavano loro o postu i 'sti persone qua”.
Oltre a ricostruire i rapporti tra la politica e il clan Piromalli, che passavano attraverso l’avvocato Gioacchino Piromalli, nipote e omonimo del capoclan della cosca (anche loro arrestati) gli inquirenti hanno accertato che le donne del clan Molè utilizzavano il libro di Susanna Tamaro “Va’ dove ti porta il cuore” per ricavarne un codice segreto utile a portare fuori dal carcere i messaggi dei mariti detenuti.
Il ruolo delle donne nell’attività delle cosche era già stato evidenziato a luglio scorso, nell’operazione che, di fatto, decapitò le organizzazioni criminali operanti nella piana di Gioia Tauro. Dalle indagini coordinate dal procuratore capo Giuseppe Pignatone è emerso che i capi dei clan Piromalli e Molè utilizzavano i colloqui in carcere per restare in contatto con le organizzazioni.
In particolare, Valeria Mesiani Mazzacuva e Caterina Albanese erano molto attive riportando all’esterno i messaggi e le direttive dei rispettivi mariti, gli ergastolani Girolamo e Domenico Molè. E per evitare di essere scoperte, qualora gli agenti penitenziari o le intercettazioni le avessero “colte sul fatto”, avevano messo a punto un vero e proprio codice segreto.
I messaggi venivano in sostanza cifrati e per “decrittografarli” era necessario conoscere il testo di riferimento, proprio come avviene per le comunicazioni militari. Il cifrario della ‘Ndrangheta era il libro della Tamaro scelto, evidentemente, in omaggio alla “valorizzazione” delle figure femminili nelle cosche. “Una sorta di quota rosa nella criminalità”, hanno osservato ironicamente gli investigatori.
In pratica, i messaggi consegnati dagli uomini del clan in carcere erano soltanto un insieme di numeri. Bisognava poi confrontare la sequenza numerica libro alla mano per risalire alle pagine e alle singole parole che, messe insieme, rivelavano il vero contenuto del messaggio. Tra i dialoghi ricostruiti dagli investigatori, anche quelli che ricostruivano la morte di Rocco Molè, ucciso a febbraio scorso. E a questo proposito Valeria Mesiani Mazzacuva sosteneva, nei messaggi, la necessità di una “vendetta immediata” e non condivideva la linea attendista del marito Girolamo Molè. La prova, secondo gli inquirenti, che il ruolo della componente femminile all’interno dell’organizzazione andava oltre la semplice funzione di portaordini.
L’indagine, che ha portato in carcere sia gli amministratori locali sia l’avvocato Piromalli che lo zio, Gioacchino Piromalli, di 64 anni, considerato dagli inquirenti uomo al vertice del clan, ha ricostruito anche la dinamica delle infiltrazioni della cosca nelle amministrazioni comunali.
I rapporti tra la cosca Piromalli e gli amministratori sarebbero stati avviati in seguito alla condanna dell’avvocato Gioacchino Piromalli, 39 anni, nipote del boss anch’egli arrestato, per il reato di associazione mafiosa. Il legale era stato anche condannato al risarcimento di ben dieci milioni di euro in favore delle parti civili: i comuni di Gioia Tauro, Rosarno, San Ferdinando e la Provincia di Reggio Calabria.
Nei mesi seguenti la condanna Piromalli ha comunicato alle amministrazioni che “era impossibilitato a fare fronte a tale obbligazione”, aggiungendo però che “essendo laureato in giurisprudenza e scienze politiche” era disponibile per “un risarcimento per equivalente, prestando la propria attività professionale per le amministrazioni”. Una richiesta ufficiale, inoltrata ai comuni attraverso un’istanza regolarmente depositata al tribunale di sorveglianza. I giudici avevano perciò chiesto formalmente alle amministrazioni di esprimere il loro parere. I comuni di Gioia Tauro, Rosarno e San Ferdinando accolsero la proposta di Piromalli ma, ieri, la Direzione antimafia ha contestato che “tale assenso è in palese violazione dei precetti normativi in vigore”. Anche il sindaco di San Ferdinando infatti, Francesco Barbieri, risulta indagato nella stessa inchiesta.
Secondo gli investigatori, ciò avrebbe consentito alla cosca “di entrare ufficialmente e con tutte le autorizzazioni del caso all'interno dei municipi in questione, aumentando in tal modo il prestigio e le possibilità, già ingenti, di controllo e di indirizzo della pubblica amministrazione verso gli interessi dell’organizzazione”.
La vicenda dell'inserimento di Gioacchino Piromalli nel comune di Gioia Tauro e Rosarno viene definita dai pm della Dda di Reggio Calabria, come un “aspetto sintomatico dell'asservimento del potere politico-amministrativo alla 'ndrangheta”.
“E, per converso - proseguono i pm - della necessità di quest'ultima di poter disporre dei riferimenti presso la pubblica amministrazione per poter conseguire i propri scopi di dominio del territorio, di acquisizione di prestigio presso la collettività che le è ormai indispensabile per la gestione del potere”.
“Perché questo - scrivono ancora i pm - è in realtà, il vero aspetto della mafia, che vive e prospera grazie al rapporto che instaura coi pubblici poteri.
Un 'aspetto sintomatico' che per caso e' stato conosciuto, grazie alla iniziativa del Consiglio dell’Ordine di Reggio Calabria che, avendo ricevuto una delle istanze di Piromalli, è rimasto “scandalizzato” (sottolineano i pm) per la richiesta pervenuta, “letteralmente offensiva”, ed ha subito informato la Procura della Repubblica competente. Strano che sia rimasta isolata – aggiungono i magistrati inquirenti - eppure le stesse istanze erano state inoltrate a tante autorità, che parimenti avrebbero dovuto rimanere esterrefatte per l'ardire del mafioso, e comportarsi di conseguenza. Strano?
Forse no – concludono i pm – ed è triste doverlo constatare”.
I legami tra amministrazioni e clan hanno causato anche una modifica al progetto dello svincolo di Gioia Tauro dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Un cambiamento nei piani di lavoro ottenuto per fare un favore a Gioacchino Piromalli senior, lo zio dell’avvocato. Un obiettivo raggiunto dalla cosca grazie alla “disponibilità” – sottolinea l’accusa – degli amministratori del comune di Gioia Tauro. Gli investigatori hanno ricostruito la vicenda nell’ordinanza di custodia cautelare.
Circa due anni fa il vecchio Piromalli fu contattato da diversi proprietari terrieri della zona di Gioia Tauro preoccupati per l’avvio, imminente, delle procedure di esproprio e indennizzo per i suoli destinati alla costruzione del nuovo svincolo autostradale della A3. Gioacchino Piromalli, che era – dicono gli inquirenti – già riuscito ad acquisire il controllo di una parte dei lavori per la costruzione di una variante alla strada statale 111, avrebbe ottenuto dall’amministrazione un intervento per far modificare il progetto autostradale, con la scusa di una presunta incompatibilità con il piano dei lavori della statale.
“Una soluzione – osservano i magistrati – che riuscì a passare perché non appariva in aperto contrasto con le norme. Di fatto – concludono – contrariamente a quanto previsto all’inizio, l’area che interessava ai Piromalli non cambiò destinazione urbanistica e il boss si conquistò la riconoscenza dei proprietari terrieri”.
L’ex sindaco di Gioia Tauro è ritenuto dagli inquirenti il principale referente del clan Piromalli.
“Il classico amministratore pubblico che si mette al servizio del crimine organizzato”: questa è la definizione che gli inquirenti danno di Giorgio Dal Torrione.
Secondo i pm della Direzione antimafia della procura di Reggio Calabria, Dal Torrione, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, “mette il suo potere a disposizione” del clan. E nella parte dedicata alla ricostruzione dei rapporti che il sindaco Dal Torrione aveva con altri esponenti politici, l’ordinanza di custodia cautelare fa riferimento, tra l’altro, anche a un’informativa della polizia inviata alla Dda nel marzo 2008, relativa ad alcuni contatti, avvenuti nel febbraio precedente, tra Giorgio Dal Torrione e Fabio Laganà, fratello di Maria Grazia Laganà, deputato del Pd e vedova di Francesco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria ucciso in un agguato a Locri il 16 ottobre del 2005.
Secondo quanto riportato dagli investigatori ai magistrati, “Fabio ha informato Dal Torrione della proroga della visita al comune di Gioia Tauro della commissione di accesso inviata dalla Prefettura per verificare eventuali infiltrazioni della criminalità nella gestione amministrativa."
Una notizia al momento riservata, che riguardava una vicenda di enorme rilevanza per Dal Torrione.
Sapere che la visita della commissione era al momento prorogata, cioè rinviata, era importante. La commissione infatti già dal mese di dicembre 2007 aveva il compito di verificare i sospetti di infiltrazione mafiosa che gravavano sul comune di Gioia Tauro che, infatti, è stato poi sciolto nell’aprile successivo.
Le ispezioni al comune di Gioia Tauro sono dunque nell’aria e il sindaco Dal Torrione è preoccupato. Per questo cerca di ottenere anche colloqui istituzionali con due componenti della Commissione parlamentare antimafia: Mario Tassone, dell'Udc, e la stessa Maria Grazia Laganà. Non riesce nel suo intento ma, riferisce la polizia, il 21 febbraio 2008, Dal Torrione viene informato da una persona, componente della segreteria politica di Laganà, indicato come Fabio, della proroga nell’arrivo della commissione d'accesso.
Agli atti c’è anche la trascrizione della conversazione tra il sindaco e Fabio. Dal Torrione si dice contento “se no ci avrebbero fatto il culo a cappello di prete”, commenta. La conversazione, sottolineano i pm, “è particolarmente significativa per due motivi. Il primo è relativo alla esigenza e alle iniziative che Dal Torrione ha adottato per ritardare al l'accesso della Commissione, al punto che Fabio si affretta a chiamarlo per comunicargli della proroga. E non manca di sottolineare il valore positivo della cosa, segno evidente del fatto che ben sa come tale risultato fosse particolarmente desiderato da Dal Torrione. Il secondo è quello relativo al timore manifestato da entrambi con riferimento agli esiti del lavoro della Commissione, su cui mostrano di voler intervenire, quanto meno per ritardarne l'inizio dei lavori”
Un ritardo che permette al sindaco di sistemare alcune cose. Anzitutto modifica la composizione della Giunta allo scopo di eliminare “un personaggio equivoco”, osservano gli inquirenti, cioè il vice sindaco Rosario Schiavone, “colpevole di non essersi dimesso”. Un riferimento, quest’ultimo ai rapporti che Schiavone aveva avuto con Gioacchino Piromalli, l’avvocato nipote del boss.“Alla luce dei risultati investigativi acquisiti in ordine alla vicenda - aggiungono i pm - non c’è che da concludere che il vero personaggio equivoco, per bocca dello stesso interessato, è proprio lui, il Dal Torrione”.
In riferimento ai contatti tra “Fabio” componente della segreteria politica di Maria Grazia Laganà e il sindaco di Gioia Tauro, è intervenuta la stessa Laganà. “Mio fratello chiarirà la questione”, ha dichiarato l’esponente del Pd. “Anche se non è detto esplicitamente negli atti – ha aggiunto Laganà - ritengo che il Fabio di cui si parla nelle carte dell'inchiesta sia mio fratello. Sarà lui, comunque, a chiarire tutto”.
Nell’ordinanza di custodia emessa a suo carico, il gip definisce il sindaco Giorgio Dal Torrione come la persona disposta “a fornire alla criminalità organizzata ciò di cui aveva bisogno: la sua esperienza, le sue conoscenze e tutta la gamma di opportunità che un navigato amministratore pubblico può offrire”. I magistrati così concludono: “Dal Torrione è stato l'ispiratore della condotta delittuosa e il soggetto trainante nella perpetrazione dell'illecito, ancora una volta ricorrendo alle più subdole arti perché non gli si potesse addebitare alcunché”.
Contro un altro degli amministratori arrestato, il sindaco di Rosarno Carlo Martelli, c’è anche la testimonianza del collaboratore di giustizia Salvatore Facchinetti. Il pentito, in un verbale di interrogatorio, sostiene che “‘sti ragazzi (riferendosi ad esponenti del clan, n.d.r) erano quelli che portavano i voti p’ ‘o sindacu Martelli perché a Martelli l'hanno messo loro”.
Le ragioni della scelta di Carlo Martelli come candidato sindaco le spiega il pentito, specificando che si trattava di una persona che un tempo poteva contare su discrete possibilità finanziarie e che, successivamente, sarebbe “andato in disgrazia”, forse per il vizio del gioco.
Una circostanza che, secondo i pm, spiegherebbe più facilmente la disponibilità dell’amministratore locale ad accogliere le richieste della cosca Piromalli. “E hanno messo a Martelli – prosegue, infatti, il pentito - pecchì siccome Rao (un altro esponente politico locale, n.d.r.), non lo so perché non si è messo lui direttamente come sindaco, però era lui quello che ha messo a Martelli che prima stava benissimo a livello di soldi e poi è sceso proprio giù”.
“Ho saputo pure che era sotto usura – aggiunge Facchinetti nell’interrogatorio – che aveva il vizio delle carte e hanno messo a lui come il sindaco di Rosarno, e di cui ci sono stati pure dei voti falsi”.
In particolare, sulla vicenda dei voti falsi Facchinetti aggiunge che “avivano diversi carti d'identità e firmavano loro o postu i 'sti persone qua”.
Roberto Ormanni
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