LA STAMPA
12/12/2008
MICHELE AINIS
MICHELE AINIS
Se c’è una festa, siamo sempre i primi della fila. Mercoledì la «Dichiarazione universale dei diritti umani» ha spento 60 candeline e in tutta Italia è stato un via vai di celebrazioni. A Torino il Gruppo Abele, insieme con altre associazioni di volontariato, ha chiesto ai cittadini di presentarsi con una fetta di torta. A Barletta il Club Unesco ha curato la pubblicazione d’un volume. A Milano l’Ares ci ha imbastito sopra un bel convegno, alla presenza del sindaco Moratti. Trento festeggerà oggi con un concerto per i diritti umani. A Parma seduta congiunta del consiglio comunale e provinciale. A Rieti un opuscolo distribuito in 30 mila copie dalla prefettura. E poi l’Arci, con la sua Maratona dei diritti. Amnesty International, con un cd dove 17 cantautori raccontano i diritti negati. Le scuole d’ogni ordine e grado. Le massime autorità della Repubblica, con un profluvio di dichiarazioni e di messaggi.
Non che sia male ricordare il seme da cui sono germogliati i nostri diritti collettivi. Anzi: in un paese come l’Italia, senza identità e senza memoria, si tratta di un esercizio salutare. Anche perché la storia della «Dichiarazione» è a suo modo esemplare. Nata da un’idea del presidente Truman, fu inizialmente molto contrastata, tanto che gli Stati si divisero perfino sul nome da assegnare al documento (c’era chi proponeva la stesura d’una Convenzione, ossia un trattato vincolante). Fu necessario trovare un codice comune fra individui delle più diverse razze, dal cinese Chang al francese René Cassin (Nobel per la Pace nel 1968), dal cileno Santa Cruz all’americana Eleanor Roosevelt, presidente del comitato di redazione. Ma infine i contrasti vennero appianati, sicché la notte del 10 dicembre 1948 - a Parigi - il testo fu approvato senza nessun voto contrario e appena 8 astensioni. Un epilogo tutt’altro che scontato, se s’osserva che la guerra fredda già divideva in due come una mela la faccia del pianeta. Ma quest’epilogo fu reso possibile dal trauma della guerra, da una comune reazione di rigetto contro ogni mortificazione della libertà, della dignità, dell’eguaglianza di ogni essere umano. È infatti la persona l’asse su cui ruota la «Dichiarazione», ha detto giustamente il Capo dello Stato.
Il guaio è che questa «Dichiarazione» molto celebrata, risulta poi ben poco applicata. Non solo in alcune lande disgraziate, in Congo, nel Darfur, a Gaza, nel nord dello Sri Lanka, dove si consumano in questi stessi giorni esodi biblici e stermini di massa. Succede, sia pure in modo assai meno drammatico, sul nostro stesso suolo. E allora ronza il sospetto che questa celebrazione collettiva della «Dichiarazione dei diritti» fornisca dopotutto un alibi per la sua rimozione collettiva. Qualche esempio, fra i molti che potrebbero elencarsi.
La «Dichiarazione» vieta la tortura, il nostro ordinamento non contempla il reato di tortura. Enunzia il diritto alla sicurezza sociale, che per metà degli italiani rimane una chimera. Aggiunge il diritto di partecipare ai benefici della scienza, su cui Santa Romana Chiesa accende il rosso del semaforo. Ma forse la prova più eloquente del suo avaro destino si legge fra le righe della giurisprudenza costituzionale. In oltre mezzo secolo di vita, solo in 6 circostanze è capitato alla Consulta d’occuparsene. E salvo un caso (nel 2002) ha sempre dichiarato la questione inammissibile, trattando i diritti della Carta Onu come diritti di carta, fiato senza parole.
In questa cattiva stella della «Dichiarazione» gioca senza dubbio la sua scarsa efficacia sul piano del diritto, secondo l’intenzione con cui essa venne espressamente concepita. Quel testo spiega un’autorità politica e morale, piuttosto che giuridica. Però la sua stessa esistenza, nonché la popolarità che lo circonda (262 mila pagine in italiano su Google), indicano un orizzonte, una direzione verso cui è giusto marciare. Non senza qualche successo, tanto che nel 1981 è stato replicato attraverso la «Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo». E in entrambi i casi la lezione sta tutta nell’aggettivo: «universale». Perché i diritti sono di tutti, o altrimenti sono un privilegio.
michele.ainis@uniroma3.it
Non che sia male ricordare il seme da cui sono germogliati i nostri diritti collettivi. Anzi: in un paese come l’Italia, senza identità e senza memoria, si tratta di un esercizio salutare. Anche perché la storia della «Dichiarazione» è a suo modo esemplare. Nata da un’idea del presidente Truman, fu inizialmente molto contrastata, tanto che gli Stati si divisero perfino sul nome da assegnare al documento (c’era chi proponeva la stesura d’una Convenzione, ossia un trattato vincolante). Fu necessario trovare un codice comune fra individui delle più diverse razze, dal cinese Chang al francese René Cassin (Nobel per la Pace nel 1968), dal cileno Santa Cruz all’americana Eleanor Roosevelt, presidente del comitato di redazione. Ma infine i contrasti vennero appianati, sicché la notte del 10 dicembre 1948 - a Parigi - il testo fu approvato senza nessun voto contrario e appena 8 astensioni. Un epilogo tutt’altro che scontato, se s’osserva che la guerra fredda già divideva in due come una mela la faccia del pianeta. Ma quest’epilogo fu reso possibile dal trauma della guerra, da una comune reazione di rigetto contro ogni mortificazione della libertà, della dignità, dell’eguaglianza di ogni essere umano. È infatti la persona l’asse su cui ruota la «Dichiarazione», ha detto giustamente il Capo dello Stato.
Il guaio è che questa «Dichiarazione» molto celebrata, risulta poi ben poco applicata. Non solo in alcune lande disgraziate, in Congo, nel Darfur, a Gaza, nel nord dello Sri Lanka, dove si consumano in questi stessi giorni esodi biblici e stermini di massa. Succede, sia pure in modo assai meno drammatico, sul nostro stesso suolo. E allora ronza il sospetto che questa celebrazione collettiva della «Dichiarazione dei diritti» fornisca dopotutto un alibi per la sua rimozione collettiva. Qualche esempio, fra i molti che potrebbero elencarsi.
La «Dichiarazione» vieta la tortura, il nostro ordinamento non contempla il reato di tortura. Enunzia il diritto alla sicurezza sociale, che per metà degli italiani rimane una chimera. Aggiunge il diritto di partecipare ai benefici della scienza, su cui Santa Romana Chiesa accende il rosso del semaforo. Ma forse la prova più eloquente del suo avaro destino si legge fra le righe della giurisprudenza costituzionale. In oltre mezzo secolo di vita, solo in 6 circostanze è capitato alla Consulta d’occuparsene. E salvo un caso (nel 2002) ha sempre dichiarato la questione inammissibile, trattando i diritti della Carta Onu come diritti di carta, fiato senza parole.
In questa cattiva stella della «Dichiarazione» gioca senza dubbio la sua scarsa efficacia sul piano del diritto, secondo l’intenzione con cui essa venne espressamente concepita. Quel testo spiega un’autorità politica e morale, piuttosto che giuridica. Però la sua stessa esistenza, nonché la popolarità che lo circonda (262 mila pagine in italiano su Google), indicano un orizzonte, una direzione verso cui è giusto marciare. Non senza qualche successo, tanto che nel 1981 è stato replicato attraverso la «Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo». E in entrambi i casi la lezione sta tutta nell’aggettivo: «universale». Perché i diritti sono di tutti, o altrimenti sono un privilegio.
michele.ainis@uniroma3.it
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