15/12/2008
CHIARA BERIA DI ARGENTINE
CHIARA BERIA DI ARGENTINE
«Assoluzione di un compito civile»: così Carlo Caracciolo di Castagneto amava definire il suo ruolo di editore in una Italia sempre meno attenta alla difesa della libertà di opinione. E, nonostante la lunga malattia - un calvario di operazioni, infarti, ricoveri, controlli tra Roma e Parigi - Carlo Caracciolo, l’ultimo degli editori «puri», scomparso a Roma a 83 anni, fino all’ultimo respiro ha vissuto da editore.
Dall’aprile 2006 presidente onorario dell’Editoriale L’Espresso (il gruppo nato con il settimanale di via Po che aveva ereditato da Adriano Olivetti, e che oggi comprende Repubblica e altri 18 quotidiani, riviste, libri, radio), Caracciolo - per autodefinizione «un collezionista di giornali che vive in un harem cartaceo» - non aveva mai smesso di andare, ogni mattina alle 8, nel suo studio all’ottavo piano della sede romana di Repubblica. Incontri, contatti, voraci letture, giudizi spesso tranchant di un grande editore (nulla a che vedere con i manager della società multimediatica e iper-spersonalizzata) che amava avere un rapporto personale, a volte anche di amicizia, non solo con i direttori - primo fra tutti l’amico e cofondatore del gruppo, Eugenio Scalfari - e i celebri editorialisti, ma anche con il più giovane dei cronisti.
I giornali erano la sua linfa vitale. «Senza Repubblica non avrebbe potuto vivere», dice commosso Luigi Zanda, senatore Pd, amico della più stretta cerchia di Caracciolo. Una grande curiosità intellettuale, una passione vera, ma soprattutto una visione «alta» del mestiere d’editore, la più liberale delle professioni: il tutto condito con lo charme dell’aristocratico napoletano scevro da ogni nostalgia. «Castagneto? Non so dove sia», scherzava Caracciolo con l’understatement ereditato dalla madre, l’americana Margherita Clarke. «Editore fortunato» (dal titolo del libro che gli ha dedicato Nello Ajello, una delle storiche firme dell’Espresso), abile giocatore di scacchi con l’inseparabile Gigi Melega e di poker contro i fortissimi Jas Gawronski e Claudio Rinaldi, nel gennaio 2007 Carlo Caracciolo, ormai assai ricco e assai malato, contro ogni logica puramente economica e forse anche contro il tempo che inesorabilmente scorreva, si lanciò nell’ultima impresa editoriale della sua incredibile vicenda umana facendosi convincere da Edmond de Rothschild ad acquistare il 30 per cento del dissestato quotidiano della gauche francese, Libération.
Nuova passione, nuovi progetti e trasferte a Parigi in puro stile Caracciolo - contatti supereccellenti, mai stress da lavoro, voraci curiosità intellettuali, sublimi mangiate -, scortato da Carlo Perrone, l’amico editore coinvolto nell’avventura, e dal superclan di parenti e amici di cui amava circondarsi. Fu sua figlia Jacaranda, giornalista del gruppo, pochi mesi fa, a salvarlo in una drammatica notte intuendo che aveva avuto un nuovo infarto; ed è stata ancora lei ad accompagnarlo a fine novembre a Parigi (lì ha incontrato anche sua nipote Margherita Agnelli) all’ultimo controllo dal professor Tarot, il suo medico francese. Tornato a Roma, negli ultimi giorni, prima del definitivo ricovero, Carlo Caracciolo da perfetto gentiluomo - never complain, never explain - non tediava certo gli amici con i suoi mali. Chi gli ha parlato in queste settimane della sua vita lo ricorda semmai sempre più amareggiato per la situazione politica italiana, il fallimento degli ideali e del mondo in cui era cresciuto (il padre, Filippo Caracciolo, fu sottosegretario nel secondo governo Badoglio per il Partito d’Azione, amico di Ugo La Malfa e Adolfo Tino; mentre lui era stato partigiano in Val d’Ossola), la decomposizione anche morale del Partito democratico denunciata con un’inchiesta di copertina dall’Espresso e, infine, la drammatica crisi economica con tutti gli immensi interrogativi anche sociali che apre.
Fine del Principe dell’editoria, fine di un’epoca iniziata dal fatale incontro a Milano, primi Anni Cinquanta, di Caracciolo piccolo editore di riviste tecniche con Eugenio Scalfari, un giovane giornalista economico, vicedirettore nell’Espresso di Arrigo Benedetti. «Eugenio emanava sicurezza», ricordava Caracciolo nel libro di Ajello. «Aveva una sensibilità per i temi tecnico-finanziari, non solo a livello teorico». Era nata la coppia più prolifica, amorosa e indistruttibile dell’editoria italiana. Il duo Caracciolo-Scalfari trasforma l’Espresso che perdeva una barca di soldi nel settimanale delle grandi battaglie civili di una sinistra più laica e democratica. «Capitale corrotta-Nazione infetta»; le campagne sul divorzio e sull’aborto, i micidiali scontri con la Dc di Amintore Fanfani con relative minacce di farla pagare alla Fiat di Giovanni Agnelli, marito di donna Marella, sorella di Caracciolo. Nubi tra cognati? «Agnelli aveva per consuetudine di non intrattenersi mai su argomenti sgradevoli», sosteneva Caracciolo. «Mio cognato è un bravissimo editore», diceva con evidente ammirazione l’avvocato Agnelli. Poi, dal 1976, il lancio di Repubblica, la corazzata vicina al Pci di Berlinguer.
Altri scontri, questa volta con Bettino Craxi fino alla guerra giudiziaria con Berlusconi e agli infiniti colpi bassi per il controllo della Mondadori. «Tu sei un mascalzone!», s’infuriò Caracciolo quando il Cavaliere gli comunicò in via Rovani di avere in mano la quota Formenton. Incassato il colpo, si divertì subito dopo a imbarazzare Berlusconi facendosi invitare a pranzo. I migliori anni della sua vita; le grandi battaglie, tante copie e molti guadagni; e pazienza se, lui che è sempre stato amico di Edgardo Sogno, veniva tacciato in certi circoli conservatori di essere un principe rosso. Raccontano i familiari che da martedì scorso nel suo letto di malato Caracciolo - uomo di assoluto fascino, gran seduttore assai amato - aveva perso la voglia di resistere oltre. Anni Novanta a Milano, supervertici con avvocati. In piena guerra con l’amico e alleato Carlo De Benedetti contro Berlusconi per la Mondadori, in attesa della decisiva mediazione dell’andreottiano Giuseppe Ciarrapico, Caracciolo si era volatilizzato: nulla e nessuno potevano fargli saltare la sua pennichella pomeridiana.
Riposa ora don Carlo (così lo chiamavano l’affezionatissima Grazia a Garavicchio, proprietà in Maremma dei Caracciolo, e Pedro, il fedele maggiordomo a Roma) ma questa volta non si risveglierà. Su una parete di Torrecchia, la grande proprietà a Sud di Roma tra boschi di querce sughero e un giardino incantato, posto del cuore di Caracciolo e di sua moglie, Violante Visconti di Modrone, c’è un affresco dipinto da Tullio Pericoli. Ritrae Carlo che guarda le verdi colline; ai suoi piedi Lunetta, la gelosissima cagnolina del principe. Otto anni fa Violante Visconti è scomparsa, anche Lunetta non c’è più. Cesare Garboli, Emanuele De Seta, Simonetta Scalfari, Sandro D’Urso: immagini del mondo caro a Caracciolo finito da tempo. Era una tersa giornata d’ottobre quando, a Torrecchia, si fece gran festa - chef Vissani, regia di Jacaranda - per gli 80 anni dell’editore-gourmet della Guida ai ristoranti dell’Espresso. Il nipote John Elkann e Luca di Montezemolo, Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti, i fratelli Nicola ed Ettore, i nipoti Marellina e Filippo e gli amici più cari. Al brindisi il primo a prendere la parola fu Eugenio Scalfari, grande barba bianca e sublime eloquio; poi fu la volta di Ciarrapico, meglio conosciuto come «Er Ciarra». Amicizie pericolose? Carlo Caracciolo era così signore da permettersi di essere un impunito.
Dall’aprile 2006 presidente onorario dell’Editoriale L’Espresso (il gruppo nato con il settimanale di via Po che aveva ereditato da Adriano Olivetti, e che oggi comprende Repubblica e altri 18 quotidiani, riviste, libri, radio), Caracciolo - per autodefinizione «un collezionista di giornali che vive in un harem cartaceo» - non aveva mai smesso di andare, ogni mattina alle 8, nel suo studio all’ottavo piano della sede romana di Repubblica. Incontri, contatti, voraci letture, giudizi spesso tranchant di un grande editore (nulla a che vedere con i manager della società multimediatica e iper-spersonalizzata) che amava avere un rapporto personale, a volte anche di amicizia, non solo con i direttori - primo fra tutti l’amico e cofondatore del gruppo, Eugenio Scalfari - e i celebri editorialisti, ma anche con il più giovane dei cronisti.
I giornali erano la sua linfa vitale. «Senza Repubblica non avrebbe potuto vivere», dice commosso Luigi Zanda, senatore Pd, amico della più stretta cerchia di Caracciolo. Una grande curiosità intellettuale, una passione vera, ma soprattutto una visione «alta» del mestiere d’editore, la più liberale delle professioni: il tutto condito con lo charme dell’aristocratico napoletano scevro da ogni nostalgia. «Castagneto? Non so dove sia», scherzava Caracciolo con l’understatement ereditato dalla madre, l’americana Margherita Clarke. «Editore fortunato» (dal titolo del libro che gli ha dedicato Nello Ajello, una delle storiche firme dell’Espresso), abile giocatore di scacchi con l’inseparabile Gigi Melega e di poker contro i fortissimi Jas Gawronski e Claudio Rinaldi, nel gennaio 2007 Carlo Caracciolo, ormai assai ricco e assai malato, contro ogni logica puramente economica e forse anche contro il tempo che inesorabilmente scorreva, si lanciò nell’ultima impresa editoriale della sua incredibile vicenda umana facendosi convincere da Edmond de Rothschild ad acquistare il 30 per cento del dissestato quotidiano della gauche francese, Libération.
Nuova passione, nuovi progetti e trasferte a Parigi in puro stile Caracciolo - contatti supereccellenti, mai stress da lavoro, voraci curiosità intellettuali, sublimi mangiate -, scortato da Carlo Perrone, l’amico editore coinvolto nell’avventura, e dal superclan di parenti e amici di cui amava circondarsi. Fu sua figlia Jacaranda, giornalista del gruppo, pochi mesi fa, a salvarlo in una drammatica notte intuendo che aveva avuto un nuovo infarto; ed è stata ancora lei ad accompagnarlo a fine novembre a Parigi (lì ha incontrato anche sua nipote Margherita Agnelli) all’ultimo controllo dal professor Tarot, il suo medico francese. Tornato a Roma, negli ultimi giorni, prima del definitivo ricovero, Carlo Caracciolo da perfetto gentiluomo - never complain, never explain - non tediava certo gli amici con i suoi mali. Chi gli ha parlato in queste settimane della sua vita lo ricorda semmai sempre più amareggiato per la situazione politica italiana, il fallimento degli ideali e del mondo in cui era cresciuto (il padre, Filippo Caracciolo, fu sottosegretario nel secondo governo Badoglio per il Partito d’Azione, amico di Ugo La Malfa e Adolfo Tino; mentre lui era stato partigiano in Val d’Ossola), la decomposizione anche morale del Partito democratico denunciata con un’inchiesta di copertina dall’Espresso e, infine, la drammatica crisi economica con tutti gli immensi interrogativi anche sociali che apre.
Fine del Principe dell’editoria, fine di un’epoca iniziata dal fatale incontro a Milano, primi Anni Cinquanta, di Caracciolo piccolo editore di riviste tecniche con Eugenio Scalfari, un giovane giornalista economico, vicedirettore nell’Espresso di Arrigo Benedetti. «Eugenio emanava sicurezza», ricordava Caracciolo nel libro di Ajello. «Aveva una sensibilità per i temi tecnico-finanziari, non solo a livello teorico». Era nata la coppia più prolifica, amorosa e indistruttibile dell’editoria italiana. Il duo Caracciolo-Scalfari trasforma l’Espresso che perdeva una barca di soldi nel settimanale delle grandi battaglie civili di una sinistra più laica e democratica. «Capitale corrotta-Nazione infetta»; le campagne sul divorzio e sull’aborto, i micidiali scontri con la Dc di Amintore Fanfani con relative minacce di farla pagare alla Fiat di Giovanni Agnelli, marito di donna Marella, sorella di Caracciolo. Nubi tra cognati? «Agnelli aveva per consuetudine di non intrattenersi mai su argomenti sgradevoli», sosteneva Caracciolo. «Mio cognato è un bravissimo editore», diceva con evidente ammirazione l’avvocato Agnelli. Poi, dal 1976, il lancio di Repubblica, la corazzata vicina al Pci di Berlinguer.
Altri scontri, questa volta con Bettino Craxi fino alla guerra giudiziaria con Berlusconi e agli infiniti colpi bassi per il controllo della Mondadori. «Tu sei un mascalzone!», s’infuriò Caracciolo quando il Cavaliere gli comunicò in via Rovani di avere in mano la quota Formenton. Incassato il colpo, si divertì subito dopo a imbarazzare Berlusconi facendosi invitare a pranzo. I migliori anni della sua vita; le grandi battaglie, tante copie e molti guadagni; e pazienza se, lui che è sempre stato amico di Edgardo Sogno, veniva tacciato in certi circoli conservatori di essere un principe rosso. Raccontano i familiari che da martedì scorso nel suo letto di malato Caracciolo - uomo di assoluto fascino, gran seduttore assai amato - aveva perso la voglia di resistere oltre. Anni Novanta a Milano, supervertici con avvocati. In piena guerra con l’amico e alleato Carlo De Benedetti contro Berlusconi per la Mondadori, in attesa della decisiva mediazione dell’andreottiano Giuseppe Ciarrapico, Caracciolo si era volatilizzato: nulla e nessuno potevano fargli saltare la sua pennichella pomeridiana.
Riposa ora don Carlo (così lo chiamavano l’affezionatissima Grazia a Garavicchio, proprietà in Maremma dei Caracciolo, e Pedro, il fedele maggiordomo a Roma) ma questa volta non si risveglierà. Su una parete di Torrecchia, la grande proprietà a Sud di Roma tra boschi di querce sughero e un giardino incantato, posto del cuore di Caracciolo e di sua moglie, Violante Visconti di Modrone, c’è un affresco dipinto da Tullio Pericoli. Ritrae Carlo che guarda le verdi colline; ai suoi piedi Lunetta, la gelosissima cagnolina del principe. Otto anni fa Violante Visconti è scomparsa, anche Lunetta non c’è più. Cesare Garboli, Emanuele De Seta, Simonetta Scalfari, Sandro D’Urso: immagini del mondo caro a Caracciolo finito da tempo. Era una tersa giornata d’ottobre quando, a Torrecchia, si fece gran festa - chef Vissani, regia di Jacaranda - per gli 80 anni dell’editore-gourmet della Guida ai ristoranti dell’Espresso. Il nipote John Elkann e Luca di Montezemolo, Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti, i fratelli Nicola ed Ettore, i nipoti Marellina e Filippo e gli amici più cari. Al brindisi il primo a prendere la parola fu Eugenio Scalfari, grande barba bianca e sublime eloquio; poi fu la volta di Ciarrapico, meglio conosciuto come «Er Ciarra». Amicizie pericolose? Carlo Caracciolo era così signore da permettersi di essere un impunito.
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