giovedì 11 dicembre 2008

Tra foto, siti e musei domestici il popolo dei gaberiani avanza

IL CORRIERE DELLA SERA

Qualcuno era gaberiano perché lui ti diceva la verità: «a volte scomoda, ma era la verità», come ricorda Gioele Dix. Qualcuno era gaberiano perché, anche quando lo fischiavi, capivi che «aveva sempre ragione », aggiunge Claudio Bisio. E oggi qualcuno è gaberiano perché «beh, nessuno come lui sa parlar d’amore », come dice Simone Veneri, trentenne informatico di Verona. E c’è chi è più gaberiano dello stesso Gaber, come Paolo Barillari, ventottenne musicista milanese: «Una volta gli ho citato la strofa di una sua canzone che nemmeno lui ricordava ».

Trasversale, osmotico, il popolo dei gaberiani corre sulla rete, si fonde nei fan club, fiorisce nelle scuole. I cinquemila iscritti alla Fondazione Giorgio Gaber non sono che l’avanguardia di una «zona franca» che discute sui forum, che sta sveglia di notte a catturare le rare immagini tv del Signor G. O che, invece, sceglie di celebrare un culto raccolto e solitario. Micaela Bonavia è un grafico editoriale che ha trasformato il suo appartamento romano in un piccolo museo: qui l’inimitabile sorriso ombreggiato dal nasone è dappertutto e, allineando vecchie cassette, rivedi un film in bianco e nero: Gaber star televisiva con Mina, Gaber sornione su uno sgabello a teatro, Gaber in dolcevita nero. Scomodo. Né di qua né di là. «Non passa mai di moda—dice Dix, protagonista di "Milano per Gaber"—perché non ti proponeva una verità, ma una lettura critica delle cose». Né di qua, né di là. Elisa Ranieri, sedici anni, studentessa allo Scientifico di Pioltello, non si sogna nemmeno di chiamarlo «qualunquismo»: «È libertà», dice. A scuola ha assistito a una delle lezioni su Gaber volute dalla Fondazione e il critico Andrea Pedrinelli le ha mostrato le varie facce del Signor G, ma lei lo conosceva già. «Me ne parla mia madre — spiega —ma non sapevo fosse così divertente, sferzante contro la tv». Già, tutto si aspettava fuorché uno che, vent’anni fa, cantava di uno "zio Renzo, che è analfabeta ma ha scritto un romanzo/ed è sempre lì da Maurizio Costanzo". Nell’aria resta sospeso il quesito della prof di latino, Angela Zippetto: «È lui che ha anticipato i tempi o da vent’anni a oggi nulla è cambiato?».

Forse è vero che deve cambiare tutto affinché non cambi nulla. Oggi tra i gaberiani possiamo annoverare sia Ignazio La Russa che Sandro Bondi. «Giuro—scherza Paolo Dal Bon, presidente della Fondazione— un giorno accendo la tv e chi vedo? La Russa che canta "Goganga" ». Ma il gaberiano è così: fedele a se stesso, a una verità intima e invisibile che si porta dentro. «Più prevedibile la gaberianità di un Mario Capanna o di un Gad Lerner — dice Dal Bon — però non tutti conoscono quella del filosofo Salvatore Veca». E chissà, forse il messaggio di «appartenenza a se stessi» che ha colto la piccola Elisa da Pioltello è più complesso di quanto sembri. O no? O forse si può racchiudere nella semplicità (timidezza) di Simone Veneri, uno che minimizza la sua ricca collezione di cd, foto, video su Gaber e confessa: «Per me è stata un’educazione sentimentale ».

Simone ha scoperto Gaber poco più che ventenne, grazie a Venceslao Rossi, coetaneo e amico che un bel giorno, «rubando » un disco dalla collezione di mamma e papà, gli fa: «Ascoltalo». Era una vecchia raccolta degli anni Sessanta, ma è bastato: qualche anno dopo, con Venceslao, ha messo su il sito www.giorgiogaber.org, migliaia di contatti, materiali rari, un forum affollato. E del messaggio contenuto in «Quando sarò capace di amare» ha fatto scuola di vita. Come Paolo Barillari, che fa il musicista anche grazie a G. «Ero giovane — racconta — e venni a sapere che c’era uno che fondeva teatro e canzone. Fui folgorato e decisi così la mia carriera. Conosco a memoria tutte le sue canzoni. Posseggo anche una piccola "chicca" di cui sono orgoglioso: un breve spezzone di "E noi qui", una trasmissione degli anni Settanta in cui lo vedi sornione e ironico». Il padovano Roberto Agostini è un gaberiano sui generis: più che il messaggio rivoluzionario lui ha colto l’inconfondibile mimica facciale e ha eseguito decine di ritratti. C’è il nasone che spunta da un sipario rosso, l’artista solo sul palco (le sue inconfondibili scenografie scarne, spoglie), un profilo ondulato che guarda il cielo. John B., 19 anni, è di Quartino, Ticino. Gaber l’ha conosciuto su YouTube. Un giorno si è collegato, ha cercato la parola «monologo» e gli è comparso il Signor G. nell’indimenticabile «Il suicidio ». Ed è stata passione. «Anima grande—dice John —, mi ha commosso ». E, se «libertà è partecipazione », è su FaceBook (il popolare social network) che si riversano i gaberiani di tutto il mondo: milleottocento iscritti al gruppo «Giorgio Gaber», da Durham a Carugate. Scrive Bruno: «Io Giorgio lo considero un amico». Forse la «generazione G» ha perso. Ma anche no.

Roberta Scorranese
09 dicembre 2008

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