martedì 3 febbraio 2009

Il localismo che fa bene


di Giuseppe De Rita

Mesi fa, dopo lo sconquasso provocato dalle elezioni politiche, andò di moda, specialmente a sinistra, la esigenza di tornare al territorio e di rifare osmosi con le diverse realtà locali. Poi tutto è rifluito nel centralismo democratico, magari attraversato da qualche ventata polemica con i cacicchi di periferia.

Viene da domandarsi oggi quale ruolo giuochino o possano giocare le diverse realtà locali, e le loro assunzioni di responsabilità, nello sconquasso provocato dalla grande onda di crisi finanziaria e poi trasposto in una sottile ma endemica difficoltà dell'economia reale. Come sempre nelle crisi violente ed inattese, la reazione istintiva si orienta alla verticalizzazione decisionale, anche perché le drammatizzazioni mediatiche spingono verso l'alto la domanda e la ricerca di adeguati interventi. Siamo quindi tutti in attesa di quel che farà il governo (magari d'intesa con altri governi e con le autorità sopranazionali); di quel che faranno le grandi centrali finanziarie e bancarie; di come potranno essere risolti i problemi delle grandi imprese in difficoltà. Alla periferia, se dobbiamo dar retta alle intenzioni, si guarda prevalentemente per deputare le amministrazioni regionali all'articolazione e all'applicazione operativa degli ammortizzatori sociali.

È probabile però che sia un errore non far riferimento al modo in cui la realtà locale vive la crisi, in una articolazione di atteggiamenti e comportamenti che è più chiaroscurata delle fosche tinte usate a livello centrale. Ci sono sindaci e presidenti provinciali che stanno valutando e programmando interventi anticiclici, facendo leva sulla riorganizzazione localistica del welfare e più ancora su incentivi alla manutenzione (di abitazioni, di boschi, di edifici scolastici, ecc.) che potrebbero coinvolgere molecolari interventi finanziari delle famiglie magari incrociati con segmenti di fondi europei.

Ci sono aziende di servizio pubblico locale che si dichiarano pronte a fare significativi investimenti in cambio di sostenibili aumenti tariffari. Ci sono banche a forte caratterizzazione locale che già ridanno fiato al mondo delle imprese (le banche di credito cooperativo hanno decisamente aumentato gli impieghi, contro la rigidità un po' egoista delle grandi banche nazionali). Ci sono fondazioni bancarie che giustamente il ministro Tremonti ha sollecitato a esser soggetti di capitale sociale orientato allo sviluppo locale. Ci sono distretti che stanno dimostrando di essere più che vigili sull'evoluzione delle loro filiere settoriali e di poter quindi presidiare il potenziale rilancio dell'export. Ci sono innumerevoli piccole e medie imprese che usano la crisi (e la cassa integrazione) per ristrutturarsi, mantenendosi rigorosamente liquide e guardandosi intorno «per comprare», ove se ne configurino oggetti e tempi opportuni.
Come sempre nelle difficoltà, la voglia di sopravvivere e rilanciare si afferma come una nostra costante silenziosa scelta.

Nessuno può pensare, anche fra i più accesi localisti, che tutto ciò possa bastare per superare la grande turbolenza che stiamo attraversando. Ma sapienza italiana vorrebbe che in questo anno difficilissimo mettessimo tutto a contributo: non abbiamo da anni uno sviluppo e un sistema di vertice, ma uno sviluppo molecolare, a tanti soggetti, e siamo, quindi, un sistema articolato e diffuso.

Cedere alla paura di vertice sarebbe un errore, fare sistema e politica solo al vertice sarebbe non solo uno sbaglio ma una autocastrazione controproducente; non sarebbe male, allora, tentare una politica di promozione e sostegno delle spinte localistiche che, come visto, sono già in essere.
Non ripetiamo quindi in economia quelle ambizioni centralistiche che nel recente passato politico hanno prodotto cattivo frutto.

03 febbraio 2009

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